Quo vado? di Checco Zalone è una domanda che ci riguarda tutti
A leggere i dati degli incassi dei primi tre giorni di Quo vado? al botteghino (7 milioni a Capodanno, triplicati nel weekend), Checco Zalone può incominciare a scalare le benzodiazepine e tirare un sospiro di sollievo: i 52 milioni di Sole a catinelle non fanno più così paura e replicarne, se non superarne, il successo è un traguardo a portata di falcata. Se Zalone batte i suoi stessi record, però, viene il sospetto che qualcosa nel suo pubblico in questi anni sia cambiato.
Aveva cominciato il ministro della Cultura Franceschini a dire sul Foglio, un anno e mezzo fa, che la sinistra non può più avere paura di Checco Zalone. Nell’espressione Checco Zalone - che non significa altro che «che tamarro» in pugliese - e nell’intera sua figura, è infatti stato riassunto e circoscritto per anni ogni recesso di impresentabilità sociale, perché fossero ben distinte due sottopopolazioni, che Zalone stesso chiamerebbe «pubblico di Canale 5», nell’accezione comune gli irrecuperabili per cui in conversazione bisogna cercare sinonimi di più immediata comprensibilità, e «pubblico di Rai 3», la sacra nicchia di quelli coi gusti giusti.
Lo scorso 20 Dicembre, Fabio Fazio ha ospitato Checco Zalone a Che tempo che fa, decretando la fine della quarantena e sciogliendo, probabilmente, financo le resistenze di quelle che chiameremmo professoresse democratiche, se la riforma della scuola non le avesse quasi del tutto estinte! Accuratissimi studi sociologici dimostrano, infatti, che su un campione di 10 iscritti under 40 del Partito Democratico, 4 sanno già cantare a memoria La prima Repubblica e nessuno si vergogna più di dire che andrà a vederlo prima possibile.
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Resta, insomma, solo lo zoccolo duro a convertirsi di quelli che la tivù si vantano di non guardarla, quelli che a cui basta un niente per gridare al degrado culturale: «Ha fatto venti milioni e passa in tre giorni? Sintomatico del degrado culturale di questo Paese. Un retaggio del Berlusconi in noi». Quelli a cui sfugge, si direbbe, l’ormai indubbia capacità di Zalone, di cogliere, insieme ai più noti luoghi comuni sugli italiani (le file, il clacson, la pigrizia e la mamma), alcuni fra i temi più immedesimabili della nostra contemporaneità.
Quo vado? è, in fondo, la domanda del nostro tempo, quella con cui tutti (partite iva, ricercatori, cervelli in fuga) interroghiamo continuamente il nostro futuro. Nel film, è Checco a chiederselo ad ogni trasferimento: è un impiegato alla provincia, in cui è talmente radicato il culto della «fissità» di posto, che, dopo la riforma del titolo V che abolisce le province, piuttosto che dimettersi come vorrebbe costringerlo a fare la dottoressa Sironi (Sonia Bergamasco), preferisce farsi mettere in mobilità e rimbalzare dalla Puglia alla val di Susa dei No Tav prima, dalla Sardegna alla Calabria dei boss poi. Fino a finire niente di meno che in Norvegia, dove finché la nostalgia canaglia non dipingerà di tricolore l’aurora boreale, Checco rischia di essere contagiato dalla civiltà.
Uscendo dal cinema si direbbe, in effetti, per un attimo che la metamorfosi è presto fatta, a vedere la ressa che si accalca per entrare allo spettacolo successivo e il signore che, invece, esce tenendo in mano il sacchetto con la Coca e i pop corn. Si direbbe… Se non fosse che, a guardarlo meglio, è un già irreprensibile dirigente del PD.