La scalata impossibile del Capitano
Il New York Times titola: «Rapito. Un dito in meno. E ora l’ostacolo più alto di tutti». Su El Capitan e oltre, il cuore indomito di Tommy Caldwell lo spinge verso l’impossibile. [NYT] Spieghiamo. El Capitan è un monolito di roccia che svetta al centro del Parco nazionale di Yosemite, in California. Immagine onnipresente nella fotografia americana, è quella che fa da sfondo all’ultima versione di OS X Yosemite, l’ultima versione del sistema operativo di Apple. Che in questo modo ha voluto alludere al fatto di aver raggiunto l’impossibile. La Dawn Wall, la parete est, coi suoi oltre 1.000 metri a strapiombo, è considerata la più difficile del mondo fra quelle non ghiacciate.
Altro particolare non irrilevante: la superficie, che di lontano appare liscia come una lavagna, è in realtà ruvida come carta vetrata e presenta spigoli vivi, nei punti di appoggio, taglienti oltre ogni dire. Le indicazioni “Rapito e senza un dito” (l’indice della mano sinistra, per la precisione) si riferiscono a uno dei due meravigliosi matti da legare che ne stanno tentando la scalata in free climbing, ossia senza l’uso di corde e chiodi. L’unica corda di cui dispongono è quella di sicurezza.
Quell’uno è Tommy Caldwell, 36 anni, di Estes Park (Colorado) alpinista da quando si trovava nel seno della madre. Il NYTimes ha alcune foto di lui bambino in montagna assieme al padre che sono di una tenerezza infinita. Proprio col padre - e altri tre compagni - fu rapito da guerriglieri locali durante una ascensione nella catena del Pamir-Alai, in Kirghizistan. Riuscirono a fuggire dopo sei giorni, quando Caldwell spinse uno dei guardiani giù da un dirupo. Tornato a casa si tagliò un dito con una sega elettrica durante i lavori di ristrutturazione di casa sua. Poteva essere la fine per uno scalatore (gli indici svolgono una funzione essenziale nell’arrampicata - come per un pianista, scrive in NY Times), ma Tommy non si lasciò intimidire, e adesso è da qualche giorno nel posto meno accogliente del pianeta. Con lui l’amico Kevin Jorgeson, di sei anni più giovane, da Santa Rosa, California. Quella parete dev’essersela sognata fin dalla prima gita scolastica.
Tommy Caldwell
Dormono in parete, con speciali tende agganciate alla roccia e dotate di due montanti in alluminio a fare da mensola, per potersi sdraiare. Il tutto viene documentato attraverso Facebook e Instagram. Non è la prima volta che i due tentano l’impresa. Ci provarono già quattro anni fa, dopo due anni di studio e di esercizio, ma dovettero arrendersi. Adesso sono partiti decisi ad arrivare in cima, anche perché - al punto in cui sono - sarebbe loro impossibile tornare indietro.
Sono partiti il giorno dopo Santo Stefano e stanno salendo un poco alla volta seguendo un orario inconsueto: si muovono solo nel pomeriggio, quando il sole gira lasciando la parete in ombra e la temperatura si abbassa tanto da non far sudare le mani. Smettono di arrampicarsi quando cala il buio. A quel punto mangiano, si ficcano in tenda, si collegano a Internet per comunicare col mondo. Dispongono di caricabatterie a energia solare. Ogni cinque giorni un amico gli porta i rifornimenti di cibo: un sacchetto d’acqua, pasta, frutta, verdura, cereali e anche una fiaschetta di whisky. Serve a ridurre lo stress. Fra parentesi: l’amico sale col metodo normale, usando i chiodi che lascia in parete. Così può anche scendere senza andare incontro a complicazioni. I due appesi guardano anche la tele (Netflix) mentre curiosi, giornalisti, cineoperatori a terra guardano loro.
Tommy Caldwell e Kevin Jorgeson hanno previsto di raggiungere la vetta in quelli che nell’alpinismo classico sarebbero 32 tiri di corda (una corda è lunga 40 metri; 40 per 32 fanno 1280 metri, ai quali bisogna però togliere il tratto che si utilizza per legarsi. E dunque siamo ai 1000 metri della parete). Il riferimento è però soltanto indicativo, perché Tommy e Kevin la corda l’hanno lasciata a casa. Serve per dire che hanno previsto di progredire di circa 40 metri - di parete - al giorno e fino all’articolo del NYT ne avevano coperti 600 (40 per 15).
A questo punto ogni previsione circa l’orario di arrivo deve tener conto di due fattori. Il primo è l’usura dei polpastrelli delle dita. Si è detto infatti che la roccia è così tagliente da mettere rapidamente fuori uso il nastro adesivo di protezione. Se fossero cani da slitta impegnati in una gara come la leggendaria Iditarod i medici, visitandoli, impedirebbero loro di proseguire. Ma questi due non sono cani da slitta e dunque possono fare quel che vogliono. Solo devono fermarsi in attesa che le lacerazioni guariscano almeno un po’. Dunque potrebbero raggiungere la cima tra poco più di una settimana, come pure ai primi di febbraio.
Il secondo fattore è la parete. Che è già stata scalata con tecnica tradizionale seguendo diversi itinerari, ed è dunque stata descritta minuziosamente e fotografata palmo a palmo. Ma dieci centimetri di differenza nella distanza fra un appiglio e l’altro, o qualche millimetro in meno di sporgenza, nel free climbing possono risultare decisivi. Quando al massimo della propria estensione non si riesce a raggiungere un punto cui aggrapparsi, poco importa se ci manchino quindici centimetri o un metro: semplicemente non ci si arriva.
Ma noi speriamo che nessuno dei due inconvenienti si verifichi, perché ci rallegra sempre il fatto che qualcuno entri - o anche solo si provi ad entrare - nella leggenda.