"Totò e Peppino divisi a Berlino" La Storia di chi ci passa per caso

La grande festa berlinese di questi giorni è stata probabilmente salvata dal ricordo di quel che fece, la sera della caduta del muro, das Mädchen (la ragazza) ossia Angéla Dorothea Merkel nata Kesner: andò a fare la sauna. Lo ha ricordato lei stessa. Il quotidiano vive una sua storia parallela rispetto al tempo delle fanfare, degli altoparlanti e dei violini. Parola di uno degli autori preferiti da Papa Francesco, il gesuita Michel de Certeau.
Totò e Peppino divisi a Berlino è un film del 1962, l’anno successivo alla prima costruzione del muro. L’anno in cui la polizia della DDR stava ancora tappando le finestre delle case sul confine fra l’Est e l’Ovest e tirando il filo spinato. Così fu giudicato quando uscì, secondo antoniodecurtis.com,
da un articolo senza firma su Il Corriere della Sera:
A parte qualche raro squarcio di vera comicità, l'umorismo sul quale si basa Totò e Peppino divisi a Berlino è di una lega piuttosto banale e alquanto sfruttata. Decisamente scontate certe sequenze che hanno ad unico sostegno situazione già troppe volte proposte e nelle quali il nostro Totò ha il torto di ricadere spesso.
E dal Corriere Lombardo:
Raccontare la trama è impossibile, tanto è confusa. Si può soltanto dire che film comici di questo genere è meglio non farli: non fanno nemmeno ridere. E fanno rimpiangere il Totò di una volta.
Si può solo concordare. Ciò non toglie che il film sia un documento preziosissimo per chi volesse entrare nel mondo di coloro - tanti, tantissimi, secondo gli studiosi - che non sono in grado di leggere un articolo di giornale, seguire un TG, capire quel che sta succedendo o - meglio ancora - quel vien detto che stia succedendo in giro. Parliamo della storia (con la minuscola) di quelli che - sballottati senza colpa nel treno del tempo - non possono far altro che mettere insieme un mondo patchwork utilizzando notizie prese qua e là al bar o in corriera, travisate e composte in un universo che si alimenta unicamente del caos continuamente fatto e ridisfatto dagli eventi.
Tutto, in questo film, ruota attorno al quel monumento di civiltà che è la Smorfia napoletana, l’insostituibile vademecum di ogni cittadino partenopeo che si rispetti. La Smorfia è la chiave interpretativa della società vesuviana. In questo film funge da pseudo codice per le comunicazioni criptate fra agenti dello spionaggio.
I due protagonisti della vicenda, Totò e Peppino, sono due magliari - piccoli delinquenti commercianti, come dice il nome, in abbigliamento taroccato - che cadono nella rete di una situazione incomprensibile il cui aspetto farsesco cancella nella coscienza degli spettatori il fatto che nessuno, al tempo in cui è ambientato il film, riusciva a rendersi conto in modo critico di cosa stesse realmente accadendo a Berlino e dintorni. La stessa iniziativa di erigere un muro di separazione fra le due città ebbe tutti i connotati dell’imprevedibile.
Totò e Peppino - che non si conoscono, anche se il primo deve entrare in contatto col secondo - si trovano a giocare, nella vicenda che li riguarda, ruoli completamente diversi da quelli per cui entrambi erano partiti alla volta dell’ex e futura capitale tedesca.
Totò gioca in un primo tempo la parte dell’Ammiraglio Canarinis - deformazione del nome dell’Ammiraglio Canaris, il capo dei servizi segreti del Reich, fatto uccidere da Hitler sul finire della guerra. L’allusione all’uso napoletano di tenere sul balcone una gabbietta con l’uccellino gorgheggiante non ha bisogno di essere sottolineata. Come è fin troppo facile riconoscere nell’aula di tribunale in cui Peppino - trasformatosi in testimone - accusa Canarinis dei più tremendi crimini di querra, il processo di Norimberga immaginato dagli abitanti del Rione Sanità. Prima avversari inconsapevoli e poi paesani rappacificati i due sono l’emblema di tutti coloro che, nella storia di quegli anni, si trovarono a recitare parti sconosciute, a collocarsi al di qua o al di là di una divisione ideologica che, a parte le dichiarazioni ufficiali in occasione di parate militari, si presentavano sfrangiate, piene di compromessi, se non altro per il fatto che le due superpotenze erano state alleate prima di entrare in rotta di collisione. Da noi era successa una cosa ancor più ingarbugliata l’8 settembre del ‘43.
La scena in cui i due, utilizzando il testo sacro di ogni sognatore e giocatore di lotto, inducono i militari di obbedienza sovietica a puntare i missili su un aereo spia americano e pochi minuti dopo si trovano davanti un pilota russo bruciacchiato che chiede ragione delle manovre antiaree del proprio Paese è un evidente calco dalla cronaca. Vi si riconosce, in filigrana, la vicenda dell’U-2, l’aereo spia del capitano Gary Powers che aprì una infinita questione diplomatica fra le due superpotenze e che si concluse, provvisoriamente, con lo scambio fra il pilota e la spia sovietica Vilyam Fischer, meglio nota come Rudolf Abel, sul ponte di Glienecke (il ponte sulla Havel che unisce Wannsee (quartiere sud occidentale di Berlino) con Potsdam, la capitale del Brandeburgo. È il ponte sul quale - in tutti film americani del tempo, e anche in quelli dopo - avvenivano gli scambi, ed era dunque impensabile che un film italiano di spie educate all’accademia di Forcella non lo citasse almeno di sguincio.
Si lavorava così a Cinecittà: collages di notizie di cui non si capiva (o si faceva finta di non capire) niente, con l’aggiunta di una dose di fantasia quanto bastava a mettere insieme un’ora e mezzo di pellicola. Esattamente come capitava ascoltando i racconti degli emigranti sul Roma - Milano - Schaffhausen - Puttgarden e ritorno. Ma almeno si lavorava, a Cinecittà. Per questo è in errore chi sostiene che film come questo non andrebbero fatti: primum vivere.
Torniamo alla fantasia. Per dire che spesso si trattava di fantasie anticipatrici profonde degli eventi perché derivavano da esperienze vissute e dimenticate subito come non serie. Solo negli anni Ottanta gli Americani decisero di render noto il famoso codice Navajo - Chester Nez, l’ultimo di coloro che ne permisero la formazione, è morto nel giugno scorso - che, costruito sulla lingua della famosa tribù, non fu mai violato dai Giapponesi, contrariamente a quanto successe a quello tedesco che fu “bucato” da uno dei più grandi logici di tutti i tempi, l’inglese Alan Turing.
La cosa non era nota, dunque, agli sceneggiatori del nostro film. Ma chi sa quante volte, prima durante e dopo le Quattro giornate di Napoli che portarono alla cacciata dei Tedeschi, i resistenti si saranno detti che per non farsi capire da “loro” si poteva usare il cifrario della tombola: 90 è la paura; 37 il fantasma; 5 la patata e 10 Maradona (ma solo dagli anni Ottanta in poi. Prima era: i fagioli). Il codice Smorfia.
Come dire: la logica perde, la fantasia trionfa sempre. Lo diceva anche Einstein: «Imagination is more important that knowledge». Magari non fa ridere, però tenerne conto non è sbagliato.