Non c’è molta gente. Anzi non ce n’è affatto

Com'è triste la GAMeC una domenica di luglio

Com'è triste la GAMeC una domenica di luglio
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È domenica mattina. Leggo su Bergamopost il palinsesto di mostre che la città offre in questo weekend di luglio: certamente notevole. Con un figlio neoarchitetto, saliamo in macchina attirati in particolare dalla mostra di Aldo Rossi alla GAMeC. Poco più di mezz’ora e ci siamo, nonostante il traffico del popolo in fuga da una Milano bollente. Aldo Rossi non è solo uno dei più grandi architetti del 900 italiano. È uno che aveva in testa e nel cuore l’identità delle città italiane, e perciò ne pensava lo sviluppo come proseguimento creativo della loro storia. Sottolineo questo, perché il primo pensiero che mi viene, dopo aver parcheggiato e aver varcato il portone della GAMeC in via San Tomaso, è che ne avrebbe detto Rossi di un innesto edilizio di questo tipo (in origine l’edificio era un monastero, ma se ne è persa del tutto quella dimensione) dentro un tessuto come quello di questa bella zona di Bergamo.

 

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Il primo impatto non è dei più incoraggianti, nonostante all’esterno una serie di striscioni coloratissimi annuncino una serie di proposte molto festose. Tuttavia arrivare a luglio ed essere accolti da quella spianata di cemento mezzo screpolato che sembra scottare sotto i piedi, non  è una bella sensazione. C’è un che di trascuratezza, che finisce con il coinvolgere anche i due grandi amanti di Manzù, che se ne giacciono lì, un po’ dimenticati.

C’è anche un bar nel padiglione di fronte, ma tutto sa un po’ di abbandono. Si entra. Il personale è molto gentile. Il bookshop ben organizzato. La mostra è bella. Rossi non si smentisce: come architetto aveva un’immaginazione libera che funzionava per sorprendenti analogie. I suoi disegni e le sue stampe sono visioni di architetture che incrociano passato e modernità.

 

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È bello inseguire i dettagli, scoprire come nella sua visione si coglie un’italianità che non teme la globalizzazione. Mi vien da pensare comunque che in quegli spazi un po’ freddi, lui si senta forse straniero. Non c’è molta gente. Anzi non ce n’è affatto. Ed è un peccato, perché Rossi è uno di quei pochissimi che sanno educare (e appassionare) lo sguardo. Ma non è colpa sua, perché lui ha un linguaggio nient’affatto elitario. Il problema è altrove. Sta in quel luogo così poco accogliente, in quell’idea che le proposte di arte contemporanea debbano per forza essere cosa per pochi (ma Christo ha clamorosamente smentito questo preconcetto).

Uscendo, facciamo tappa nell’ala dove sono esposte le raccolte stabili: non mancano dei veri gioielli, ma anche qui prevale una dimensione di trascuratezza. La Cassaforte di Cattelan – per discutibile che sia – è ai lati del corridoio tra una serie di sculture di Manzù. Sembra messa lì un po’ a caso: immagino lo spaesamento di chi se la trova davanti. Il meraviglioso cagnetto di Boccioni (un capolavoro del 1909, giustamente usato per uno dei manifesti della GAMeC) è chiuso in una strana stanza ribattezzata Caleidoscopio. Io che sono un po’ del mestiere faccio fatica a capirne le ragioni. Immagino cosa possa capire un visitatore normale...

 

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Prima di tornare a Milano facciamo tappa alla Centrale dismessa di via Daste e Spalenga, dove l’associazione Contemporarylocus ha proposto anche quest’anno la riscoperta di un luogo segreto della città, attraverso un intervento di arte contemporanea. C’è il grande pavimento di specchio, spaccato dai passi di chi ci cammina sopra, realizzato da Alfredo Pirri. Il pubblico non manca. Ma soprattutto c’è la passione di chi è lì a raccontare e spiegare il valore di quel progetto. E che non vuole che l’arte contemporanea sia un affare per pochi. La Centrale è di proprietà del Comune. Può essere un bello spazio per accogliere e far crescere associazioni culturali come queste.

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