Una società diversa

C'era una volta la Barbie magra che faceva solo la casalinga

C'era una volta la Barbie magra che faceva solo la casalinga
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C’erano una volta delle bambole che erano piccole bambine di cui occuparsi, lavandole, portandole a spasso, dando loro da mangiare. Negli Anni Cinquanta questo era il metodo per insegnare alle future donne a prendersi cura della prole, un assaggio di quella che sarebbe stata la loro vita futura. Così, quando a Ruth Handler, moglie del proprietario di una fabbrica di giocattoli, venne in mente di creare una bambola adulta, fu una grande rivoluzione. Ad ispirare la futura presidente della Mattel fu la figlia Barbara, che giocava con delle bambole di carta fingendo che fossero donne vere.

 

 

Così nacque il primo modello di Barbie, presentata nel 1959 alla New York Toy Fair, destinata a diventare simbolo dei sogni di tutte le bambine, da uno dei primi modelli che, con una bambola in tuta da astronauta, alimentò anche nelle donne il sogno di arrivare sulla luna (desiderio che si sarebbe realizzato quasi vent’anni dopo). Negli anni Barbie diventò meccanico, pilota di formula uno, dottoressa, scrittrice, veterinaria, soldato, attrice, ranger, infermiera, cantante, ballerina e, ovviamente, principessa e mamma. Un modello per ogni sogno, che cresceva, però, in un corpo  standardizzato, sempre più snello, con i seni che si allargavano e il girovita si riduceva. Così, mentre i creatori dei Barbie continuavano a sostenere che una serie di scelte “anatomiche” fossero state fatte anche per rendere più facile vestire e svestire la bambola, pian piano iniziarono le critiche contro un giocattolo che veicolava un modello inarrivabile di perfezione, un corpo che nella realtà avrebbe avuto misure 36-18-33, così sottopeso da essere incapace di mestruare.

Critiche che hanno iniziato, soprattutto nell’ultimo decennio, a incrociarsi con il dibattito sul femminismo, al punto che nel 2015 Barbie ha raggiunto un momento di crisi, con le vendite che precipitavano del 21 per cento, tanto da spingere il brand a ripensare la sua strategia commerciale e vagliare l’ipotesi di “ridimensionare” (letteralmente) il prodotto. Questa rivoluzione è raccontata in Tiny Shoulders: Rethinking Barbie, un documentario sul cambiamento che sta avvenendo dentro il mondo di Barbie, ripensata e ricreata per diventare un giocattolo adatto al XXI secolo. In questo film la regista Andrea Nevins intervista femministe, scrittrici e persone di cultura, per parlare di come sia cambiata Barbie negli anni, scoprendo quanto profondamente la storia della bambola si intrecci con quella della femminilità occidentale.

 

 

In una società che non sembra voler accettare più canoni di bellezza precostituiti o legati a misure e colore della pelle, in un momento di grande dibattito sul femminismo e sul ruolo della donna, l’immagine di Barbie diventa allora un terreno di battaglia, per capire se il mito della bambola dalle forme perfette, i capelli biondi e lo sguardo eternamente seducente debba essere definitivamente sorpassata, giudicata non più accettabile per definire chi una bambina voglia diventare.

Il risultato è chiaro: servono Barbie che si possano adattare ad una società che ha cambiato colore, forma, modo di esprimersi e di stare al mondo. Barbie non sarà una cultura, né un sistema, ma sicuramente è entrata così tanto in profondità nell’immaginario collettivo da diventare un simbolo di femminilità per tante generazioni di giovani donne. I giocattoli, del resto, sono e saranno sempre oggetti che influenzano la concezione del mondo dei bambini, trasmettendo loro aspirazioni e speranze per il futuro. Forse per questo, per icone come Barbie è arrivato il momento di indirizzare bene il loro potere.  E che la bambola simbolo dell’infanzia di centinaia di migliaia di bambine si possa ora acquistare di diverse taglie e sette tonalità di pelle differenti è un grande, primo passo.

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