Uno studio su 300 studenti

Squilla il telefono, cattive notizie (quelle buone vanno sui social)

Squilla il telefono, cattive notizie (quelle buone vanno sui social)
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La rivista americana Computers in human behavior ha diffuso i risultati di un’indagine recentemente condotta dall’Università del Wisconsin.  La responsabile dell’indagine, la professoressa Catalina Toma, esperta negli effetti sociali e psicologici delle telecomunicazioni, ha chiesto a trecento studenti di registrare in un diario il contenuto sia degli aggiornamenti pubblicati sui social network (Twitter, Facebook e Instagram) sia delle conversazioni, telefoniche e non. I dati raccolti hanno rivelato che le buone notizie tendono a essere condivise sul web, mentre si preferisce comunicare le cattive per telefono, o faccia a faccia.

 

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Rendere la nostra vita quotidiana l’oggetto di un racconto aiuta ad accrescere il grado di realtà di ciò che ci accade, perché porta alla conoscenza degli altri avvenimenti che, altrimenti, riguarderebbero soltanto noi stessi. La portata emotiva di eventi lieti viene pertanto amplificata, quando vengono diffusi sul web, come se la condivisione diffusa funzionasse da “ripetitore” psicologico. La facile accessibilità della notizia, inoltre, non obbliga a nessun riscontro immediato, da parte di chi legge. Ci si  può dunque limitare a recepire l’informazione, senza dovere fornire alcuna risposta. Al contrario, le cattive notizie scatenerebbero il bisogno di essere “sopportate” insieme a qualcun altro. Comunicare le proprie ansie e problemi a una persona fisica, anziché virtuale, porta alla condivisione empatica, secondo un processo del tutto naturale, che la scienza ha scoperto dipendere dai famigerati neuroni–specchio.

Inoltre, le buone notizie, quelle che, per intenderci, non si ha ritegno a comunicare a quante più persone possibile, si diffondono più velocemente e vanno più lontano rispetto a quelle negative. Lo dice una ricerca del professor Jonah Berger, i cui risultati sono stati resi noti e commentati da un articolo del New York Times, pubblicato il 18 marzo 2013. L’uomo, insomma, pare fatto proprio per le cose belle. Oppure sono le cose belle, che cercano di diffondersi per contagio, come una buona malattia.

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