Dalle 21.30

L'America vera, una sera, al Goisis La cantano (e suonano) i Two Blue

L'America vera, una sera, al Goisis La cantano (e suonano) i Two Blue
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E chi lo dice che l'America è poi così lontana? Le stelle a strisce, più che un luogo, sono un'idea. Una sensazione, un sogno. Spesso, anzi spessissimo, una canzone. Blues, country, il rock allo stato puro. Note che escono da una chitarra e ti portano dall'altra parte del mondo in un nanosecondo, altro che un jet. Per trovare l'America non serve poi tanto e stasera, mercoledì 25 luglio (ore 21.30), gli States sbarcano in Monterosso, più precisamente al Goisis: nel chiringuito del fresco estivo firmato Nutopia e Tassino, infatti, ci sarà il live dei Two Blue.

 

 

Ovviamente, i Two Blue sono in due, intercambiabili: Max Marchesi a voce e chitarra e Marco Pasinetti a chitarra e voce. Ma i Two Blue sono soprattutto i racconti in musica di cantautori che hanno raccontato con poesia e note la società americana dell'ultimo secolo, attraverso la forza inarrestabile del blues e del country, passando poi naturalmente per il rock. Artisti come Johnny Cash, Bob Dylan, Hank Williams, Tom Waits. Sono questi nomi la stella polare dei Two Blue, l'America che Max e Marco ci portano a visitare in ogni loro live. Il progetto dei due ragazzi (raccontano) è nato in un caldo pomeriggio estivo, quando si sono incontrati per condividere una suonata in strada. Non è un caso, quindi, che le canzoni da loro scelte spesso ci accompagnano in un viaggio "on the road", senza stradario né calendario, e ci raccontano storie di amori falliti, di sbronze finite male o di fallimenti, con alle spalle un fiume paludoso, un treno merci, una prigione o un pontile isolato. I Two Blue sono storie, racconti, libri in musica. Ed è Max Marchesi a raccontare tutto questo, in poche battute, in attesa del live di questa sera (ore 21.30) al Goisis.

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Da dove nasce la passione per i cantautori americani?
«La passione per la musica cosiddetta folk americana è nata in me circa trent'anni fa, quando ho iniziato a suonare la chitarra, che ovviamente non poteva che essere acustica. Ero attratto dalle sonorità e dai ritmi di quella musica senza conoscerne un granché i testi (non esistevano Google o Wikipedia), finché, sempre in quegli anni, un cugino molto più grande di me cominciò a farmi ascoltare dei dischi di Dylan e me ne innamorai letteralmente. Via via negli anni la mia ricerca è continuata, riconoscendo credo la modalità di scrittura intimista dei cantautori come una qualità vicina al mio carattere».

Quanto ritrovate delle canzoni che cantate nella vostra esperienza?
«Alcuni cantautori più di altri hanno scritto, al pari dei più grandi scrittori o poeti, pezzi di letteratura che trattano tematiche universali, quindi da questo punto di vista si potrebbe dire che cambiano i paesaggi e i riferimenti ma non l'essenza dei sentimenti e dei conflitti che abitano l'animo umano. Per quanto riguarda l'aspetto musicale, invece, c'è da dire che in Italia non siamo sicuramente agevolati da quello che la radio o la tv ci propongono, il cantautorato così come il blues e il country non sono facilmente ascoltabili, ancor meno dei già snobbati cantautori nazionali e della musica cosiddetta colta».

Cercate di reinterpretare e riarrangiare i pezzi o di riprodurre il mood più simile possibile all'originale?
«Non abbiamo una modalità di lavoro universale da applicare ai brani che scegliamo di interpretare, dipende un po' da come un brano risuona in noi: ci troviamo spesso a mettere un vestito nuovo a dei pezzi scritti cinquant'anni fa o a invecchiare l'aspetto di una canzone più recente. Senza farne una questione estetica, come dicevo, ma lasciandoci suggestionare da quello che una canzone ci suscita ai primi ascolti».

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