Lo chef patron del ristorante Da Vittorio

Chicco Cerea, la madre lo racconta Ora che è tra i migliori 50 al mondo

Chicco Cerea, la madre lo racconta Ora che è tra i migliori 50 al mondo
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Il magazine francese Le Chef, autorevole voce in materia dal 1986, ha chiesto a 512 ristoratori premiati con il prestigioso riconoscimento Michelin (dalle due stelle in su) di nominare 5 colleghi - e relativi ristoranti - che incarnassero i valori della professione e la cui cucina dovesse essere assaggiata almeno una volta nella vita. Nove italiani sono arrivati tra i primi 50 nomi (qui la classifica completa): uno di loro è Enrico “Chicco” Cerea, chef patron del tristellato Da Vittorio di Brusaporto.

Superfluo commentare il prestigio del premio. Sta di fatto che arriva come coronamento – e nuovo punto di partenza – di una vita dedicata, fin dai primissimi momenti, a questo mestiere. Una passione costante e sempre nuova, ereditata dal padre, l’indimenticabile Vittorio, e dalla madre, la signora Bruna. Vittorio oggi non c’è più, ma Bruna è ancora accanto ai figli, a questa squadra di famiglia che mantiene alta l’eccellenza della ristorazione italiana, e fa onore a Bergamo. Così, abbiamo varcato l’elegante soglia del ristorante di Brusaporto un sabato mattina, quando ancora i fornelli non scottano e in sala non scivolano in modo discreto e attento i camerieri, e ci siamo fatti raccontare direttamente da lei, la signora Bruna, chi è Chicco Cerea, questo figlio diventato icona internazionale del gusto.

 

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[La famiglia Cerea: dietro, Francesco e Bobo. Seduti, da sinistra a destra: Rossella, Chicco, la signora Bruna, Barbara]

 

Quando Chicco nasce, nel ’63, è il primogenito e il suo destino sarebbe stato segnato di lì a poco – per fortuna, diremo poi: suo padre Vittorio apre nel ‘66 un ristorante sulla via storica di Bergamo città, quella che dalla stazione porta alla bella Città Alta. Un luogo semplice, che ha come unici comandamenti la genuinità dei piatti e l’accoglienza calorosa del cliente. Per i Cerea, la ristorazione è da sempre una questione di famiglia. Così, quando i bambini (sarebbero stati cinque, in tutto: Francesco, Barbara, Rossella e Bobo) arrivano a casa da scuola, bisogna «fa ‘nda i mà», spicciarsi ad aiutare. Allora, cartella buttata di fretta in un angolo, Chicco corre in cucina per aiutare il papà e i cuochi. Ci sono il pane da fare, i bicchieri da sistemare, le verdure da pulire. E siccome a dieci anni il piano di lavoro d’acciaio della cucina è su su, in alto, una cassettina di legno sotto i piedi per recuperare i centimetri mancanti, e via. È piccolo, ma sbircia tutto, prova tutto, impara tutto.

È il ’70 e, nonostante il ristorante abbia già una stella Michelin, tutto è naturale, appassionato, con quella patina di grezzo che fa belli i ricordi: «Abitavamo sopra il ristorante, tutto lì abbiamo avuto, sempre. Eravamo in tanti, stavamo tutti insieme: noi (dice noi per dire io e Vittorio, ndr) e i figli dividevamo gli spazi con i cuochi e i camerieri. Erano bei tempi», racconta la signora Bruna. Qualcosa rimane anche oggi, di quell’aria di famiglia (oltre il fatto che tutti e cinque i figli ci lavorano), perché all’una, quando i nipoti escono da scuola, entrano ancora nel ristorante con una naturalezza che ha dell’incredibile, davanti a quelle tre stelle preziosissime. E uno li guarda, con le cartelle da scuola, e ha la sensazione precisa che lì sia casa loro. E che a Vittorio sarebbe piaciuto.

 

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Vittorio che ha sempre sperato – racconta la signora – che Chicco si fermasse lì a lavorare al ristorante, anche se si era messo a studiare al liceo linguistico, perché da grande, all’inizio, voleva fare il veterinario. «Quando ha scelto di stare qui al ristorante con noi (noi, ndr), è stato un momento di respiro: significava che c’era qualcuno dei tuoi (dice, letteralmente, «di tuo», ndr) con cui condividere le fatiche». Allora papà Vittorio decide e capisce che è il momento di consegnargli l’occasione fondamentale di crescere: prende contatti per lui all’estero, lo vuole in giro per il mondo per imparare, scoprire, rubare il mestiere. A diciott’anni parte e diventa grande, in ogni senso: «In Francia ha dovuto lavare anche i piatti, eh», dice piano la signora Bruna. La gavetta c’è, non lo spaventa, ed è di quelle di tutto rispetto, nelle cucine internazionali che hanno rivoluzionato (e fatto) la storia: da Heinz Winkler al Tantris di Monaco di Baviera, da Sirio Maccioni a New York, da George Blanc a Vonnas, da Ferran Adrià a Roses. Ogni volta che torna a casa per qualche mese ha idee nuove in testa e forme rivoluzionarie negli occhi: il padre si lascia contagiare dal suo entusiasmo, dalla bellezza delle novità. Racconta la signora Bruna: «Lo lasciava fare, lui che non aveva potuto girare e imparare e che gli aveva dato tutto, anche con un po’ di sacrificio». Così, i talenti sono stati consegnati, la passione, il valore della fatica e della dedizione pure. E lui, Chicco, com’era, chi era?

Dolce, timido, curioso. Sono i tre aggettivi che tornano più spesso quando si insiste un po’ con la signora e i fratelli, cercando di farsi raccontare qualche strafalcione, qualche monellata, qualche figuraccia o qualche scivolone nella vita. Niente: «Un bravo ragazzo, di quelli che non danno dispiacere, volenteroso». Eppure, non uno qualunque; lo dice con parole semplici, lei: «E poi, aveva tanta inventiva». Non bastano la dedizione e la disposizione al sacrificio. Servono, ma non bastano. Bisogna nascerci, fuoriclasse. «Forse è proprio il lavoro giusto per lui, quello che doveva fare nella vita. Io mi ricordo: arrivava a casa e si inventava di quelle cose che noi non avremmo mai nemmeno potuto sognarci». «Forse», dice. Tre stelle Michelin, tra i migliori cinquanta al mondo. Ma lei è pur sempre una madre, e le madri possono chiedersi lo stesso se quella era davvero la strada buona per noi, quella giusta.

 

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[Gli chef di famiglia: Chicco e Bobo]

 

Orizzonti delineati, direzione presa, che cosa piace, in quei primi anni, a questo giovanissimo ragazzo ormai totalmente dedicato alla cucina? La sua passione sono i dolci, la millefoglie. Anche se una volta il dessert non era ancora quello che è oggi: per chiudere un ottimo pranzo bastava una buona macedonia. La signora Bruna si dava da fare con qualche torta dal sapore casalingo, e qualche dolcetto, ma non di più. Chicco, del resto, in quel periodo era a Parigi. «Poi è ritornato», racconta «e ha ribaltato tutta la pasticceria, ha stravolto ogni cosa con le sue nuove idee e così ho capito che dovevo lasciargli il posto». Ancora oggi, una delle cose più belle che ha il ristorante è proprio il carrello dei dolci e quello dei bonbon. E nessuno riesce a dimenticare un dolce Da Vittorio dopo averlo provato per la prima volta.

E oggi, chi è, Chicco Cerea. Ne ha fatta di strada da quando, ragazzino in mezzo ai cuochi e ai camerieri, all’allegra e dura confusione della cucina, era alle prese con la preoccupazione di fare bene, la paura di sbagliare e il desiderio di fare meglio, con tutta l’adrenalina di questo mestiere. Ne ha fatta di strada da quando girava il mondo per rubare il mestiere ai più bravi e oggi viaggia invece per andarlo a insegnare: Londra, New York, Singapore. Ne ha fatta di strada, da quella cassettina di legno ribaltata sotto i piedi, oggi che chiude i bottoni alla Bragard ricamata col suo nome prima di uscire di casa (rarissimo vederlo vestito “in borghese”) e quando entra in cucina le schiene un po’ si raddrizzano, le mani girano rapide e concentrate, gli occhi stanno attentissimi, tutti si affidano a lui, perché – assioma numero uno – di lui, di quello sguardo dedito e precisissimo dentro alla pentola, ci si fida. E quando inclina la testa per rimirare il piatto e lo studia e non lo molla fino alla fine, e la fine è la perfezione, è tutto chiaro: qualcosa lo consuma dentro, in un modo buono e vivissimo. Qualcosa che vale tre stelle Michelin, e una top 50 al mondo.

Che poi, quella volta della terza stella, lui stava lavorando, alla cerimonia di premiazione, allestiva il catering per tutti. Ma a un certo punto ha capito. E la signora Bruna ricorda la telefonata: «Mamma, vieni qui a Milano, perché forse...». Era il 2010, e Vittorio non c’era più. Quanto gli sarà mancato, quella volta. E pure tutte le altre. Solitudine e privilegio di essere il migliore.

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