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Il formaggio in quel di Verona è tutta roba di noi bergamaschi

Il formaggio in quel di Verona è tutta roba di noi bergamaschi
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Quando analizziamo i legami che i secoli e la storia hanno costruito attorno a Bergamo ed alla terra orobica, siamo portati a volgere la nostra attenzione ai contigui territori lombardi della Valtellina, della Valcamonica, del Lecchese, del Comasco e del Milanese, oppure, al più, alla Serenissima Venezia che da noi piantò le tende, le Mura e la propria dominazione. Meno noto è invece il legame forte che sei, settecento anni fa caratterizzò i rapporti fra Bergamo e Verona. E più che di bergamaschi bisogna parlare di… bergamini, dato che furono proprio i professionisti dell’alpeggio e dell’arte casearia, fra il XIV ed il XVI secolo, a monopolizzare produzione e commercio di formaggi nella città scaligera. A rivelare questo particolare legame è stato uno studio prodotto quasi trent’anni fa dallo storico veronese Gian Maria Varanini, oggi ripreso e approfondito dal ruralista Michele Corti, docente di Zootecnica all’Università di Milano attraverso un saggio pubblicato a settembre 2018 sul sito Ruralpini. Attraverso la transumanza a lungo raggio e un’emigrazione senza dubbio qualificata, i bergamini operarono in un vasto ambito padano-veneto dando impulso alle attività zoocasearie. «Lo studio di Varanini, sinora sfuggito a chi si occupa di storia locale - sottolinea Corti - metteva in evidenza come, nella Verona del Trecento-Quattrocento, la produzione e il commercio caseario risultassero largamente controllati da famiglie bergamasche, con particolare rilevanza di nuclei provenienti da Gandino. Alcune di queste famiglie si radicarono nella città scaligera ed entrarono nel patriziato locale».

 

[Ricostruzione di una malga medievale in Lessinia]

 

Dall’alpeggio al mercato, una filiera ottimale. Allora più di oggi, la vendita di formaggi e di prodotti legati alla filiera dell’alpeggio era indissolubilmente legata alle attività di allevamento e alle direttrici di movimento di mandrie e greggi. «Nel Medioevo - spiega Corti -, quando la produzione di formaggio grana in pianura era di là da venire, sui vasti pascoli delle Prealpi e delle Alpi si radunavano mandrie che fornivano (con l'aggiunta di latte caprino e ovino) il latte necessario per produrre le forme di grandi dimensioni di formaggio duro stagionato, in grado di essere trasportato senza danno anche con i mezzi dell'epoca (muli e carri). In pianura la foraggicoltura. che sfruttava l'irrigazione era ancora ristretta a limitate aree della bassa Insubria (Lombarda occidentale). Tra gli allevatori (e casari) si distinguevano i bergamaschi quali indiscussi specialisti, normalmente operanti in proprio o in società con elementi locali; a volte anche chiamati da grossi proprietari a rendere i loro servigi in altre regioni. I mandriani/casari transumanti erano chiamati (per antonomasia) "bergamaschi" anche quando non provenivano dal territorio bergamasco (ma potevano essere anche lecchesi o bresciani). Nell'area della bassa pianura delle attuali provincie di Brescia, Mantova, Verona, Vicenza, Padova, oltre ai coltivi dedicati in larga misura alla cerealicoltura, erano ancora ampiamente diffuse le paludi (le “valli”) mentre nella media e alta pianura vi erano zone ghiaiose aride. I "bergamaschi" utilizzavano in pianura le aree di pascoli naturali magri, non troppo aridi o umidi. Durante l'inverno, per il mantenimento dei bovini era necessario ricorrere alla somministrazione di fronde arboree, preventivamente fatte essiccare in autunno, mentre ovini e caprini (ancora presenti numerosi insieme ai bovini nel Quattrocento) reperivano più facilmente risorse vegetali marginali. In questo quadro di allevamento estensivo, praticato tutto l'anno all'aperto, l'alpeggio era prezioso per la produzione casearia dal momento che qui le vacche da latte trovavano un pascolo capace di sostenere una buona produzione. Solo attraverso la proprietà e la conduzione degli alpeggi o, comunque, uno stretto contatto (relazioni famigliari, accordi societari) con chi li gestiva era possibile disporre di formaggi in quantità (e qualità) tali da sostenere l'attività commerciale. Questo spiega la stretta connessione tra allevamento, alpeggio, commercio caseario».

La “conquista” dei monti Lessini. I malghesi bergamaschi, veri professionisti, come afferma Corti, dell'allevamento bovino e del caseificio, si inserirono nella realtà veronese prendendo in affitto alpeggi di proprietà ecclesiastiche sui monti Lessini. Si tratta di un comprensorio molto vicino alla città e da essa controllato direttamente. Una peculiarità che ha consentito agli storici di disporre di abbondante materiale documentale, al contrario di aree lombarde e venete dove il contesto rurale e montana era più avaro di “formalità”. «Un aspetto che sorprende della presenza dei bergamaschi (imprenditori, commercianti, pastori, casari) a Verona - aggiunge Corti - riguarda la specifica provenienza di molti da Gandino, in Val Seriana. Diversi contratti di affitto di alpeggi vedono come contraenti proprio gandinesi. Nel 1397 Gracius, Betellus e Laurencius de Gandino sono affittuari di S. Giacomo e Lazzaro alla Tomba. Fermo da Gandino è affittuario di S. Maria in Organo e i fideiussori sono Andriolo e Bettino da Gandino. Questi imprenditori si avvalevano di pastori (famuli) anch'essi di Gandino, che svernano nella campanea in prossimità della città, a Corno, S. Lucia, S. Zeno. Troviamo poi un Archegello di Gandino che, nel 1494, è affittuario S. Maria in Organo. Quest'ultimo monastero affittava alpeggi alla famiglia Verdelli di Gandino e a Comino da Gandino. Archegello in inverno si spostava a Castagnaro presso Legnago, altra zona importante per lo svernamento oltre a quella prossima alla città (la campanea), dove svernavano mandrie che arrivavano a 60-80 bovini. Tra questi gandinesi che alpeggiano in Lessinia è citato anche un certo Franzono da Gandino che svernava nel bresciano, a Calvisano. Tra le famiglie bergamasche che ebbero successo a Verona vanno citati anche gli Zugnoni, che, prima di operare a Verona nel commercio caseario, si erano trasferiti a Venezia per commerciare tessuti. Il palazzo Zugnoni, in via Ponte di Pietra, nel cuore della vecchia Verona, reca dei fregi sottogronda tra i quali uno, con due putti seduti su pile di forme di formaggio, è molto interessante perché si tratta di forme di grandi dimensioni e con lo scalzo concavo, uguali a quelle del formaggio grasso d'alpe delle Orobie (Bitto e Branzi). Era il formaggio bergamasco importato a Verona e commercializzato dagli Zugnoni (e da altri commercianti di origine bergamasca) o quello che i bergamaschi producevano sugli alpeggi della Lessinia? Più probabile la prima». Tra i bergamaschi (e i bresciani) che gestivano le attività d'alpeggio nella Lessinia è probabile che, mentre alcuni si siano stabiliti definitivamente in territorio veronese svernandovi con il bestiame e dedicandosi al commercio caseario, altri continuassero a transumare tra il veronese e le terre d'origine, oppure verso il mantovano, il bresciano e il cremonese.

 

[Fregio di Palazzo Zugnoni a Verona]

 

Bergamaschi in maggioranza. «La prevalenza dei lombardi e, in particolare, dei bergamaschi tra le fila degli esercenti l'ars formagierorum a Verona nel Quattrocento – sottolinea lo studio di Corti - è deducibile dalle iscrizioni alla corporazione nel ventennio 1441-1458. In questo periodo, su un totale di 360 persone che entrano a far parte della corporazione, il 60% sono lombardi, con i bergamaschi che rappresentano i 4/5 dei lombardi. Essi provengono per la maggior parte da Gandino, Barzizza, Gazzaniga, qualcuno da Bergamo, Zogno, Clusone, Val S.Martino, Caravaggio. Gli altri lombardi sono valtellinesi, comaschi, cremonesi, bresciani, milanesi. Varanini ritiene che anche tra il 30% di iscritti di Verona (città e territorio) potevano figurare molti altri lombardi di seconda generazione. Si configura pertanto una specie di monopolio del settore che definisce la presenza degli operatori zoocaseari bergamaschi a Verona quale fenomeno del tutto diverso rispetto alla pur intensa generale emigrazione bergamasca che interessa nel Quattrocento tutto il Nord-est. La presenza dei vaccari di Gandino non fu comunque esclusiva di Verona. In misura molto meno rilevante essi erano attestati anche nel vicentino occidentale e nei Berici. L'egemonia dei bergamaschi è confermata dal fatto che in più occasioni i gandinesi (Luzaschi, Tartaglia) rivestirono la carica di massaro (presidente diremmo oggi) della corporazione. Nel 1485 Pietro Pantini è invece gastaldo (segretario diremmo oggi) della corporazione e, allo stesso tempo, commercia in grande stile in suini, ma anche in panni. Alcune famiglie (Pantini di Gandino, Vèrtua di Vèrtova) fecero una non disprezzabile fortuna tra le fila del patriziato minore nel Cinque-Seicento. Significativo dello stretto rapporto di Verona con la Lombardia anche il fatto, caso unico in Veneto, che l'edificio dell'alpe adibito alla fabbricazione e conservazione del formaggio venga indicato, alla lombarda, come cassina».

La presenza e la fortuna dei bergamaschi a Verona coincide con il periodo del domino visconteo, che può aver favorito gli interessi dei lombardi. Lo prova il fatto che, intorno al 1400 sul mercato veronese, a fronte di una forte corrente di importazione dalla bergamasca di formaggio (tam dulci quam forti), di mascherpa, di lino e di scarpe, Gian Galeazzo Visconti rifiuti di applicare una tassa a favore del comune come richiesto dagli amministratori cittadini. In realtà il forte rapporto tra l'area lombarda e il veronese risaliva a secoli prima e continuò ancora per altri secoli sino a tempi a noi vicini. Già dall'inizio del Duecento era attiva la transumanza tra la pianura mantovana (le aree a nord di Mantova) e gli alpeggi veronesi. Essa era regolamentata e favorita dai Gonzaga che ne traevano utili non disprezzabili. Questo tipo di transumanza era destinato a durare sino a Novecento inoltrato, così come la corrente di importazione di formaggi bergamasco-bresciani a Verona e di formaggio veronese a Brescia e Bergamo.

 

 

Gandinesi, abili commercianti e casari di alto livello. La sorprendente egemonia gandinese nel commercio caseario veronese va ascritta alla grande intraprendenza commerciale e alla particolare competenza casearia. Alcuni episodi della stessa epoca mettono in evidenza la grande capacità "manovriera" dei gandinesi ma suggeriscono anche l'ottima qualità del loro formaggio. «Durante il periodo delle guerre tra Venezia e Milano - afferma Corti -, i gandinesi riuscirono sempre ad attestare la loro fedeltà a chi al momento prevaleva (veloci a cambiare gabbana). Nel 1427, per appoggiare le proprie istanze a Venezia e veder riconfermati i privilegi, un gandinese si trattenne 41 giorni a Venezia ingraziandosi il conte di Carmagnola (destinato poi a triste fine) con imprecisate quantità di formaggio. Nel 1437 la comunità di Gandino donò, in occasione della battaglia di Ponteranica, quattro forme di formaggio (da 8,5 kg l'una) a Datesalvo Lupi e ad altri capitani marcheschi. Non si può dubitare della qualità del formaggio di Gandino se esso veniva sistematicamente utilizzato per omaggiare i potenti. Offrirne del mediocre sarebbe stato pericoloso. Tale qualità, però, nel tempo si deve essere degradata; spente le glorie dei bergamini, che praticavano transumanze e commerci a lungo raggio, il caseificio gandinese ha conosciuto un netto depotenziamento che si è tradotto nella cultura (minore) della formaggella. Effetto della marginalizzazione dell'attività pastorale in un contesto industriale forte come quello di Gandino». Anche secoli dopo, l’impronta bergamasca restò (e probabilmente resta) nel commercio caseario veronese. «Uno studio - conclude Corti - riporta un elenco del 1740 degli appartenenti alla corporazione dei formaggiai di Verona. Vi troviamo sei Locatelli, quattro Cassi, tre Carminati, due Manzoni, due Previtali, due Scanzi, un Invernizzi, un Invernici, un Arrigoni, un Salvi, un Rovelli, un Facchinetti e un Piazza, segno che la pianta bergamasca aveva messo radici e di una particolare vocazione per l'allevamento bovino e l'arte casearia delle genti delle Orobie, capace di influenzare l'economia e la cultura zootecnica e casearia di buona parte della pianura padana».

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