La locanda di Bigio l'ostér ad Altino Che Veronelli definì «psichedelica»
Abbandonato l'abitato di Vall'Alta, saliamo per una strada che si snoda tra i boschi con l'indolenza di un serpente millenario. Dalla coltre di foglie secche potrebbero uscire draghi, e gnomi dai tronchi cavi. Pensiamo di viaggiare verso il passato, ma fra meno di mezz'ora saremo nel 2116,anche se non lo sappiamo ancora.
C'è una caligine leggera che ci accoglie, quando arriviamo all'ampio piazzale del Santuario della Beata Vergine di Altino. Arroccato in cima al monte da cui ha preso il nome, venne costruito in seguito al miracolo di una fonte sorgiva che sgorgò per dissetare un contadino del posto e i suoi figli. Oggi siamo qui non soltanto per dissetarci, ma per provare la cucina di Bigio l'ostér, a chilometro zero, o quasi.
All'ingresso ci attira un articolo di giornale incorniciato, firmato da Luigi Veronelli. È lui che definisce «psichedelica» l'osteria di Bigio, al secolo . E spiega anche il soprannome, con una citazione dotta: «Per comporre il color bigio i pittori mescolano tutt'i colori, e lo chiamano il color dell'asino; e però dicendosi uom bigio s'intende uno che ha tutt'i vizi». Forse tutti i vizi no, ma è difficile trovare un interesse che il Bigio non abbia. Criptozoologo, astronomo, amante della musica jazz, teorico della cucina come cultura e viceversa, ha proiettato le sue molteplici personalità all'interno del proprio locale.
Antichi strumenti di lavoro, opere d'arte africane, disegni suoi e di altri artisti, ritratti d'illustri frequentatori come Enzo Jannacci e, ovunque, il maiale, protagonista indiscusso. Una foto, a mo' di santino, immortala addirittura lui, il Bigio, chiamato dal suo omonimo umano “il caro estinto”, il primo maiale sacrificato nel 1992 alla causa gastronomica. Ci sentiamo leggermente in colpa, mentre degustiamo i salumi dell'antipasto, accompagnati da petto d'oca affumicata. Un senso di colpa che si stempera con la delicatezza dei casoncelli, viene quasi totalmente assorbito da uno stracotto d'asino che si scioglie in bocca, scompare definitivamente con l'assaggio del chignöl di polenta con “piede del carcerato”, eloquente nome di un formaggio dalla grande presenza olfattiva. Quando è il momento del salame dolce, ogni turbamento è sepolto.
In compenso, nasce la curiosità per il Gallipolo, da pronunciare alla francese, con l'accento sull'ultima o. L'ostér ci spiega che la creatura, in latino Gallipolus Altinensis, ha una zampa in più che compare nel piatto sotto forma di salsiccia. E non è l'unico animale mitologico della sua cucina: c'è anche la Lepre Maiala, clamorosa creatura in grado di sfamare da sola ben dieci commensali. «In realtà – spiega Bigio – era una bestia macilenta, quasi in putrefazione per la permanenza di giorni nell'abitacolo dell'amico cacciatore che me l'ha portata, chiedendomi di cucinarla per un paio di compari. Quando si sono presentati in dieci non ho battuto ciglio, ma al momento del conto ho raccontato la leggenda della Lepre Maiala per spiegare che con quella carcassa non ci avrei sfamato nemmeno una persona. Le vere lepri, naturalmente, le ho messe io».
Mentre parliamo lo sguardo ci cade su uno dei tanti quadri alle pareti. È la riproduzione del Giuramento della pallacorda di Jacques Louis David. «Vedete? Quello che entra da sinistra è il vento della rivoluzione. Che io interpreto in modo astronomico, come un continuo ritorno alle origini – e aggiunge - “Never underestimate the importance of local knowledge”». L'annuncio pubblicitario di una banca che diventa filosofia di vita, e arriva insieme al caffè.
Prima del congedo le foto di rito, all'esterno, in una luce malata perché «Si sta spegnendo», visto che siamo nel 2116. Ci adattiamo rapidamente al balzo temporale, e c'è tempo per un'ultima sorpresa: il mazzo di Arcani del porco, disegnati da Enrico Prometti. Estraiamo una carta, non diciamo quale, e leggiamo il messaggio: «La vita è una simbologia confusa».
Siamo d'accordo.