Il Teatro Stalla è tornato alla grande Si inizia stasera: andateci, punto
Ci siamo, il Teatro Stalla è tornato. E la stagione, che inizia venerdì 10 con lo spettacolo Nozze di sangue, promette benissimo: sono in arrivo infatti 23 appuntamenti, tra laboratori e spettacoli, tutti nello spirito d’inclusione di Cascina Germoglio, tra malattia mentale e animali, con in più un’importante novità: l’apertura a compagnie teatrali del territorio. Al pubblico verranno proposti così anche nomi e gruppi teatrali del calibro di Pietro Arrigoni, Walter Tiraboschi, Patrizio Belloli, Qui e Ora Residenza Teatrale, Stefano Ulivieri, il Tae, Gli Operai del Cuore, Tribe Dance e la giovane compagnia Voci di Periferia. La cornice è sempre quella: il palco-stalla essenziale e carico di senso della cascina di Verdello. Una nota: il 23 settembre verrà riproposto Io e Frankestein (ne avevamo parlato qui), diretto dal fondatore in persona, Pier Giacomo Lucchini: se ve lo siete perso, segnatevi la data sul calendario. La programmazione, poi, continua senza dimenticare, come da rodatissima tradizione, i bambini: per loro spettacoli ad hoc e l’apertura, da maggio, alle scolaresche e alle famiglie tramite il progetto delle fattorie didattiche.
Ad ogni modo, si comincia venerdì 10 alle 21, con Nozze di sangue di Garcìa Lorca (regia di Pietro Arrigoni). Un atto unico, tratto da una storia vera, in cui si concentrano mito, dialoghi popolari e dell’infanzia, cupe passioni. La tragedia incombe subito sui personaggi che, immersi in quest’atmosfera ancestrale, non sanno sottrarsi al dubbio e al tormento. Costa 10 euro, andateci e basta: fidatevi, il Teatro Stalla è un’esperienza da cui non si passa - per fortuna - incolumi. Se volete completare la serata potete anche prenotare la cena all’Hostaria Germoglio (035 4813569) lì accanto. Intanto, per chi non conoscesse ancora questa realtà bergamasca, o per chi volesse ricordarsi perché è così importante, vi lasciamo in compagnia delle parole di Lucchini, fondatore e presidente della Fondazione.
Lucchini, possiamo usare la parola matti?
«Io li chiamo così. Mi dà più noia sentir parlare di paziente o malato mentale che matto. Sono parole ormai desuete, arcaiche, medievali che non servono a niente. Certo, la parola matto va usata con poesia, con affetto e con calore. Non va usata per denigrare».
Da una vita ha a che fare con i malati di mente, come si trova?
«Io con loro ho un rapporto privilegiato, li chiamo per nome. Difficilmente guardo le cartelle cliniche o l’anamnesi, non sono di mia competenza, non sono un medico. Però un po’ la curiosità e un po’ l’esperienza… Dopo venticinque anni di carriera psichiatrica mi posso permettere di dire che non ci sono più i matti di una volta».
Cioè?
«I matti di una volta si identificavano totalmente con l’istituzione. Non esistevano i matti, esisteva il manicomio. Infatti si diceva: “quello lì” è al manicomio, a Borgo Palazzo, al Collegio di Seriate, si usavano queste espressioni pittoresche. Certamente poi non erano così sollecitati dalla società, perché il manicomio, questa grande istituzione, li aveva esclusi dal tessuto sociale. Li aveva inglobati come una mamma nel proprio grembo e non sapevano nulla di quanto avveniva fuori dalle mura. Una volta abolito il manicomio come istituzione, i malati mentali per forza di cose sono cambiati: sono stati costretti a lasciarsi provocare dalla società, si sono riappropriati della società. Non è un caso che oggi siano in notevole aumento patologie come i disturbi del comportamento».
Chi sono i malati psichici oggi?
«Ci sono molti giovani che soffrono tanto, tantissimo. E fanno molta più fatica di prima a vivere in questa società. Io non so se la gente in manicomio soffriva così: era matta, ma i bisogni primari venivano soddisfatti dall'istituzione, tutto sommato il manicomio li proteggeva. Oggi invece vivono come noi dentro la realtà, in modo anche più frustrante, ossessivo, nevrotico perché la vita è talmente accelerata che non c'è più posto per loro. È durissima. La cosa che disturba maggiormente un giovane di oggi con problemi psichiatrici non è tanto l'essere additato o giudicato, ma proprio questa sensazione di non essere al pari con i tempi, di noi riuscire a “star dietro”. E questo comporta grandi sofferenze esistenziali. Quando uno arriva a questi punti mette in discussione tutti i rapporti. Prima nei confronti di se stesso, poi rovescia la sua negatività sulla famiglia e infine sulla società».
È molto diversa la tipologia sociale rispetto ad alcuni decenni fa?
«Una volta regnava un grande analfabetismo, anche se i matti non erano stupidi, tutt ’altro. Oggi invece il matto ha tranquillamente uno smartphone in tasca, possiede un computer, ha studiato (da noi ci sono anche dei laureati), magari ha iniziato una carriera professionale. Poi succede questo big bang della mente che nessuno saprà mai cosa sia e inizia il declino psicologico e umano. Tutto sommato i matti di una volta erano più semplici, più rurali, potremmo dire più poetici. Quelli di oggi sono molto più complessi e senza dubbio anche più furbi, più evoluti. Anche la nostra professione, di conseguenza, è diventata più complessa, più difficile».
Se lei fosse l’assessore regionale della Sanità, cosa farebbe per migliorare la psichiatria?
«Farei quattro cose. Anzitutto creerei un autentico governo della psichiatria. Oggi la psichiatria non è governata e non è più autorevole, è autoritaria. C’è una legge regionale che ti impone di fare o di non fare, che stritola e schiaccia le idee, i sentimenti, gli affetti, le proposte e le innovazioni. Non ci sono tavoli seri di coordinamento, di discussione. Si va sempre e solo a battere i pugni per portare a casa qualche finanziamento in più e la cosa finisce lì. Bisogna invece fare un lavoro a tappeto. I responsabili della Regione dovrebbero alzarsi dalle loro sedie e andare a capire dove sono i problemi della quotidianità».
Seconda.
«Una “desanitarizzazione” della professione. Non ha più senso far lavorare ventiquattro ore al giorno un infermiere professionale in psichiatria. Dobbiamo invece potenziare l’investimento su figure sociali, educatori, tecnici della riabilitazione, psicologi».
Terza.
«Formazione permanente, perché la malattia mentale non colpisce solo la mente, ma la sua personalità. Si investe ancora poco in formazione, mentre c’è molto da studiare».
Quarta.
«L’interdisciplinarità di scienze legate alla medicina quali la psicologia, la pedagogia e la filosofia. La grande lezione di Basaglia non è stata quella di chiudere i manicomi, prima o poi li avrebbero chiusi comunque. È stata invece quella di creare dei nuovi operatori che avessero un approccio critico alla malattia mentale, alla follia. Che lasciassero aperta una possibilità. Basaglia aveva capito che le categorie con cui un tempo si definiva la follia non la contenevano più. Se tu non ammetti la possibilità di una possibilità altra, sei nel totalitarismo intellettuale. La grande lezione basagliana dell'approccio critico comporta mettere in discussione l'idea intellettualistica della negazione intesa come esclusione. Questo è il manicomio. Il manicomio dal punto di vista architettonico non era un brutto posto, c’erano giardini, grandi spazi, il bar, lo spaccio. Era una città nella città, ma era la città dell'esclusione. L'esclusione del matto. Invece il matto deve essere incluso nella famiglia, nella società, nel tessuto urbano. Solo in questo modo possiamo proporre una psichiatria dell'ospitalità».
La chiusura dei manicomi ha fatto ricadere il problema sulle famiglie.
«È vero. La grande critica mossa a Basaglia fu: chiudete i manicomi e poi queste persone dove vanno? Ma Basaglia non voleva questo. Voleva un approccio critico alla psichiatria».
Oggi c’è?
«Purtroppo no. C’è stato questo fulmine che ha portato luce per alcuni anni, ma poi questa luce si è affievolita. C’è piattezza intellettuale, scarsità di cultura e approccio critico zero, non ho timore a dirlo. Certamente all'inizio è mancato il collegamento con il territorio, ma questo non si può imputare a Basaglia, semmai ai nostri legislatori che non sono stati in grado di leggere questa grande apertura».
Com’è la situazione a Bergamo?
«Le nuove strutture sul territorio sono belle e rispetto ad altre realtà siamo un’isola felice. Questa battaglia l’abbiamo vinta. Ma la cultura manicomiale è qualcosa di più subdolo, ce l’abbiamo dentro e a vent’anni dalla chiusura del manicomio, se mi chiede se abbiamo vinto anche la battaglia culturale, le rispondo di no. Fino a quando non andremo a rispolverare l’approccio critico alla psichiatria il rischio è quello di ricreare tanti bei piccoli manicomi».
Si può guarire dalla follia?
«Aspettavo questa domanda. Ma bisognerebbe intendersi su cosa significa guarire. Tuttavia io so che i miracoli succedono. Vedere una ragazza laureata che ha avuto problemi molto seri e che, dopo essersi curata, vive fuori, lavora, è fidanzata, è una grande gioia. E come questo ci sono altri casi felici».
Lei porta in giro i pazienti per il mondo.
«Noi della Bosis siamo una comunità viaggiante sotto tutti i punti di vista. Siamo stati in Nepal, alla piramide del Cnr, in Pakistan al campo base del K2, in Africa sul Kilimangiaro, in Patagonia nel Cile, alle Torres del Paine, al Fitz Roi e sul Cerro Torre. Oggi viaggiare è più difficile perché le risorse sono diminuite. Ma poi c’è tutta l’attività produttiva e culturale».
Qual è stato il più bel viaggio?
«Quello che dobbiamo ancora fare. Uno dei motti della Fondazione è una frase di Saramago: “La fine di un viaggio è solo l’inizio di un altro”».
Quali sono state la più bella vittoria e la più cocente sconfitta di questi 25 anni in prima linea?
«La più grande sconfitta che ho vissuto è stata l’anno scorso quando è morta Emilia Bosis. Ai suoi funerali erano assenti le istituzioni di Bergamo e la psichiatria ufficiale. Ma a ben vedere questa è stata una sconfitta non per Emilia, ma per loro. Perché non hanno compreso il gesto rivoluzionario di questa donna che ha dato tutta se stessa».
E la soddisfazione?
«Essere riuscito, grazie a Emilia, a trasmettere questa forza vitale, questo istinto di fare e di guardare avanti. Aver creato un’equipe nella psichiatria di gente che ci crede, che fa».
Come fa lei ad avere uno sguardo così attento e tenero sui matti?
«Tanti dicono perché un po’ lo sono anch’io. Ma quando ho lavorato al manicomio mi sono reso conto di cosa possa diventare una persona che perde la dignità. Diventa meno della bestia. Io amo gli animali, sono una parte importante della mia vita, però le persone sono persone. A me i matti fanno tenerezza, li capisco, sono sempre dalla loro parte perché sono simpatici, originali. Io ho coinvolto la mia famiglia in questa follia generale, i miei bambini li frequentano tranquillamente, alla Cascina Germoglio di Verdello vengono migliaia di famiglie ogni anno a giocare nel parco, a vedere gli animali, a fare le feste con i nostri pazienti. Questa è una bellissima cosa».
Il viaggio, gli animali, l’arte e il teatro. Sono le sue terapie.
«Non è solo far recitare i nostri ospiti, è far sì che loro si esprimano. Questo è fondamentale. Gli animali e l’arte possono salvare i matti. Una libertà di espressione totale, sincera, autentica».