Brasile-Bergamo, andata e ritorno Fino al Tijuana di Borgo S. Caterina
Foto Sergio Agazzi
Questa è la storia di un lungo viaggio di andata e di un ritorno. È la necessaria avventura iniziata poco dopo l’Unità d’Italia di due famiglie, una ligure e l’altra veneta, verso la ricerca di un po’ di fortuna, in un Paese - l’America Latina - che rappresentava il sogno di una nuova vita degna. Per cinque generazioni le famiglie in questione hanno abitato, lavorato e cresciuto i propri figli tra Brasile, Argentina, Perù e Uruguay, dedicandosi con tenacia e impegno al settore agro-alimentare. Poi, agli inizi degli Anni Novanta, una profonda crisi e una grande instabilità economica di buona parte del Sudamerica obbligò la famiglia Raffo a intraprendere un viaggio a ritroso, verso le proprie origini, ma anche verso un futuro tutto da ricominciare. Enrique, sua moglie Berenice e i loro tre bambini - Valeria (8 anni), Camila (6 anni) e Giancarlo (4 anni) - lasciarono la propria casa, il lavoro, la famiglia, gli amici, l’amata Curitiba e dal Sud del Brasile partirono per Bergamo. Nella valigia una sola certezza: «Eravamo sicuri di vincere». A dircelo, con gli occhi che trasudano coraggio, è la signora Berenice che, seduta accanto a sua figlia Camila, sorride fiera e serena ripercorrendo la sua storia di vita: «Per sopravvivere devi metterti in gioco. E noi lo abbiamo sempre fatto. Tutti e cinque insieme».
Arrivarono a Bergamo perché qui avevano il contatto di un caro amico di famiglia, Gianni Balduzzi, che li aiutò con generosità a muovere i primi passi nel territorio. La prima casa in affitto riuscirono a trovarla alla Roncola San Bernardo, dove i bambini crescevano sereni circondati dal verde e nel giro di un mese già parlavano l’italiano. Berenice ed Enrique lavoravano duro in due locali diversi. Lui imparò a fare le pizze. Lei faceva i turni in un locale. Per un po’ i figli la seguivano e l’auto era stata attrezzata anche per farli riposare, poi, quando furono un po’ più grandi, lasciava loro il cibo pronto e i tre bambini, con responsabilità, si prendevano cura gli uni degli altri. Sapevano tutti di essere parte dello stesso progetto e che essere famiglia significa soprattutto fare squadra nell’affrontare le sfide. Quando la distanza dai bambini divenne troppo faticosa, Berenice «chiese» - e lo dice alzando lo sguardo colmo di fiducia al cielo -: «Ho bisogno di un lavoro che mi faccia stare con i miei figli». E così accadde che, mentre il marito continuava a lavorare come pizzaiolo per perfezionare le sue capacità e per avere un’entrata sicura, lei aprì una piccola pizzeria d’asporto proprio in Borgo Santa Caterina.
Il marito si svegliava presto e preparava gli impasti, i figli dopo scuola la raggiungevano e aiutavano stendendo le pizze e occupandosi della cassa. Era il 1997. «L’impasto brasiliano fu un successo e dopo soli sei mesi anche Enrique poté lasciare il lavoro per dedicarsi al nostro locale. Eravamo di nuovo tutti riuniti e non ci siamo più lasciati». Camila ha gli stessi occhi densi della mamma e racconta con gioia di ogni esperienza fatta. «Io ero velocissima a fare le pizze! Il locale era piccolo e dovevamo alternarci al banco perché in due non ci si stava. A un certo punto con noi c’erano dieci ragazzi alla volta che si occupavano della consegna delle pizze». Di lì a poco, nel 2001, arrivò anche una nuova possibilità e la famiglia non esitò, ancora una volta, a rimboccarsi le maniche e raccogliere l’ennesimo guanto di sfida: nacque così il Tijuana Ristorante Argentino con contaminazioni gastronomiche da tutto il Sudamerica e anche dall’Italia.
«Io e mio marito abbiamo in comune lo spirito di avventura e la certezza che la vita apra sempre tante porte». E Camila che, con una laurea in Psicologia, gestisce con il fratello Giancarlo i due ristoranti di famiglia (il secondo è a Spirano) aggiunge: «Papà ci ha insegnato a rischiare e mamma ci ha trasmesso la sua inarrestabile grinta ed è per noi un punto saldo». Le due donne si guardano con un misto di tenerezza e stupore, poi Berenice aggiunge: «Ho avuto in dono dal cielo tre figli meravigliosi. Io mi sono messa al loro fianco per non farli cadere». La signora Berenice racconta, cercando bene ogni parola. Talvolta si scusa per il suo italiano imperfetto, ma ne conosce bene i significati più alti: ha studiato Filosofia e ama la poesia, quella di Goethe e di Alda Merini. Sono le 12.30 al ristorante e arrivano i primi clienti. Berenice interrompe il racconto per salutare e accertarsi dello stato di salute dei suoi ospiti: «Per me sono come i miei nonnini e quando arrivano dico loro: lasciate la tristezza da parte, sedetevi comodi e mangiate bene».