In particolare la val brembana

Quando i gogis giocavano a cotecc L’identità perduta della nostre valli

Quando i gogis giocavano a cotecc L’identità perduta della nostre valli
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«Io ho sentito molte ballate quella di Tom Dooley quella di Davy Crocket e sarebbe piaciuto anche a me scriverne una così. Invece, invece niente, ho fatto una ballata per uno che sta a Milano al Giambellino: il Cerutti, Cerutti Gino». Le nuove generazioni faticano senza dubbio a ricordare l’incipit con cui Giorgio Gaber aprì nel 1960 una memorabile ballata, ma anche, inconsapevolmente, quegli anni “formidabili” legati al boom economico e a una voglia diffusa di cambiare il mondo, nella politica, nella musica ed anche al bar. La Ballata del Cerutti era l’affresco di un’epoca e di un mondo proprio della periferia di Milano, ma assolutamente presente anche nella nostra Valle Brembana dove molti “Cerutti” (non certo scansafatiche come il protagonista della canzone) rientravano nel fine settimana di ritorno da Sesto San Giovanni e zone limitrofe, dove erano scesi in massa ad ingrossare le fila delle Acciaierie Falck, della Breda e di altre aziende ormai superate dai tempi e dalla generazione 2.0.

 

 

Chi erano i gogis. Erano gogis che nel fine settimana ritrovavano radici e identità nella casa di famiglia, nei saluti al cimitero e nei pomeriggi al bar, con interminabili partite a cotecc. Per le nuove generazioni di cui sopra, si impone una spiegazione, a cominciare dal termine gogis, che identifica i brembani nati “oltre la Goggia”, come recita curiosamente il nome della parrocchia di San Martino, che unisce le comunità di Piazza Brembana e Lenna. Ol büs de la gogia (letteralmente la cruna dell’ago) è una particolare roccia presente all’imbocco della Val Parina non lontano dal Brembo (secondo altri ora scomparsa a valle della località Baràca) fra Camerata Cornello e Lenna. Un punto nevralgico nelle antiche geografie, ma ancor oggi una porta d’accesso all’Alta Valle, nonostante i tunnel del dopo alluvione ne abbiano relegato il ricordo a un paio di incerti cartelli posti lungo la ex statale.

 

Ol büs de la gogia all'imbocco della Val Parina

 

I bei tempi del coteccStabilito chi fossero i gogis, corre ora l’obbligo di spiegare (o almeno provare a farlo) il cotecc, gioco di carte rigorosamente bergamasche, probabilmente prodotte dalla gloriosa Masenghini. Prevede di distribuire sette carte per ciascun giocatore (al tavolo si può arrivare ad essere in cinque, il cosiddetto cotegiù). Non si può rifiutare (se posseduto) il seme giocato dall’avversario, ma non si può sempre mollare, pena la sconfitta con cappotto. Quindi prendere ma non troppo oppure mollare ma non sempre, con giocate semplici e veraci. C’era a quei tavoli (come al Bar del Giambellino del mitico Cerutti) una vera e propria filosofia, che altrove ha avuto l’onore di essere esaltata da cantori come Beppe Viola o Gianni Brera. Nulla mancava però alle osterie “oltre la Goggia”.

Il cotecc era (e speriamo resti, ma è in via d’estinzione) una vera e propria arte, con i suoi funamboli. Negli anni ’80 ci fu addirittura un campionato brembano a tappe, con medaglie d’oro e sfide inenarrabili archiviate fra i ricordi memorabili, che oggi appaiono leggende. A Bordogna c’era il Chiesa, a Santa Brigida il Mario, a Roncobello Pinuccio “l’Americano” (nei soprannomi entrano anche le storie di emigrazione), a Valnegra il “Dottore”, per via di un’irruenza sui campi da calcio che “mandava in ospedale” gli avversari. Da Milano saliva immancabile il “Dividum” (dalla proposta gergale che faceva al finalista che trovava alla fine del “cotegiù” per spartirsi la posta), così come non mancavano il Gianluigi, l’Egidio, il Gino o i valligiani Raffaello, Gige, Vincenzo. E ancora il Dolci, il Cüso, il Corado, senza dimenticare le nuove leve: il Gozzi, l’Attilio, il Bianchi (dal colorito pallido) o il Gebi. Inutile chiedere nomi e cognomi: oltre la Goggia bastano le citazioni per accendere un sorriso.

 

 

A corredo di quelle interminabili partite c’era il gergo inimitabile del cotecc: prender troppi punti in apertura era “caricarsi di legna verde”, così come assicurarsi la mano di apertura era invece “legare il toro”. Sovrana poi la regola per eccellenza: ciapà e turnà (prendere e poi rigiocare lo stesso seme), che i sofisti del calcio moderno definirebbero semplicemente “ripartenza”. Attorno ai tavoli del cotecc c’erano i timorosi (i tremacua), i kamikaze (di norma dei gran pagheur, pagatori) ed i semplici spettatori. C’era chi le sparava grosse ed era necessariamente un fiaba e c’è chi ancora le racconta oggi con non poca nostalgia. In quelle osterie, per la nebbia, non c’era modo di scorgere cartelli di divieti di fumo, ma si poteva vivere la gioia intensa di un’umanità che ora invece dialoga sui social e gioca a carte sul tablet. Volete mettere i tempi in cui i gogis giocavano a cotecc?.

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