Perchè quelli di Lovere hanno una chiesa così bella
Il giorno di Pasqua di quattro anni fa (2014) è stata riaperta, la Basilica di Santa Maria in Valvendra a Lovere. Sette team di restauratori hanno lavorato, in un anno di restauro, su: sei cappelle (affreschi, statue lignee, altare marmoreo, altare in scagliola, stucchi, Cristo ligneo) l’Ancona lignea dell’abside, quattro grandi tele (Adorazione dei Magi, Presentazione al tempio, Natività, la Pala dell’altare maggiore), Quattro Evangelisti (dipinti su tela), quattordici dipinti della Via Crucis, Protiro. Tutti i serramenti sono stati sostituiti, compresi quelli delle grandiose finestre della navata destra che portano vetri soffiati, e montati a piombo. Due Soprintendenze (Beni storici e artistici, e Beni architettonici) hanno supervisionato, il Comune di Lovere e la Fondazione della Basilica hanno gestito. La direzione tecnico-artistica è stata seguita da una “polentina” doc: Silvia Conti. Insomma: un intervento imponente, costato quasi un milione e mezzo di euro, una vera e propria resurrezione di questa importante chiesa, vanto di una cittadina (bresciana quando si tratta di religione, e bergamasca quando si tratta di vita laica), famosa per essere abitata da “polentini”.
Perché "Polentini". I loveresi sono detti “Polentini” perché difficili da smuovere e da entusiasmare verso qualsivoglia iniziativa, sostengono quelli che ne voglion parlare male (magari non del tutto a torto). La versione nobile afferma invece che son così definiti perché un loro avo, Pietro Barboglio de’ Gajoncelli, importò nel ‘600 dalle Americhe quattro chicchi di mais, e li fece poi seminare in un suo orto a Volpino, paesino ad un tiro di spingarda, dando così il via all’appolentamento della bergamasca, e non solo.
Come nacque la chiesa. Eppure sono vissuti personaggi di Lovere, o da Lovere adottati, che negano con le loro opere e, altrimenti non si può definire, la loro feconda follia, la polentinitudine appioppata ai pronipoti. Basta risalire per esempio al 1473, anno che ha visto iniziare i lavori per la costruzione della Basilica di Santa Maria. Ebbene, quella che Guido Piovene, in uno scritto degli Anni Sessanta, definisce «una delle chiese più grandi e belle del Rinascimento Lombardo» è da sempre soprannominata il Chiesone, proprio per le sue grandi dimensioni rispetto al piccolo borgo che la ospita. Voluta e finanziata dalle famiglie nobili e facoltose dell’epoca, soprattutto quelle produttrici di panno – merce per cui Lovere allora era famosa e commerciava in tutta Europa –, è ancora di proprietà comunale perché furono – appunto – i loveresi a volerla. Ed esagerarono. Tant’è che l’ipotesi più probabile è che si rivolsero, per costruirla, ai Maestri Comacini, capomastri e maestranze ritenute nella Lombardia del XV secolo il meglio, e pretesero che fosse seguita nella progettazione la sezione aurea, il che la rese per sempre perfetta nelle sue proporzioni.
Il tesoro della Basilica. All’interno s’affacciano nove cappelle, decorate nei secoli dai vari casati. A dimostrazione del fatto che le vollero importanti, gli ultimi restauri, ad esempio, hanno messo in luce che le lumeggiature nella volta della cappella dedicata a San Diego (la numero sette) son state realizzate in oro zecchino, si trovano in alto e difficilmente dal basso si notano. Ma son state decise comunque in metallo nobilissimo, e costoso. Sopra le volte delle cappelle, poi, sono stati ritrovati tre archi ad ogiva che fanno pensare alla possibilità che si volesse ancor più grandiosa la struttura di Santa Maria e che poi, o per improvvisa modestia o per una più probabile fine dei fondi disponibili, si sia rinunciato a questa parte goticheggiante, limitando sai, per modo di dire, all’attuale soluzione. Insomma: la grandiosità della struttura convive con l’opulenza discreta, quasi invisibile, delle finiture, fortemente applicata nelle navate di Santa Maria. Una Basilica, una follia, un costo spropositato. Ma cinquecentoquarantuno anni dopo ne godono ancora tutti, in primis quelli che dovrebbero essere lenti e molli come una polenta.