Una vicenda avventurosa

Storia dei due capolavori di Sironi che decorano le Poste di Bergamo

Storia dei due capolavori di Sironi che decorano le Poste di Bergamo
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Il Palazzo delle Poste di Bergamo fu realizzato tra il 1929 e il 1931 e la sua costruzione costituisce il punto di avvio di successivi interventi, che porteranno alla ridefinizione dello spazio derivante dalla demolizione dell'antico Ospedale di San Marco. L’edificio, volto ad accogliere la sede centrale delle poste e dei telegrafi, venne progettato a partire dal 1928 da Angiolo Mazzoni, architetto del Servizio Lavori e Costruzioni della Direzione Generale delle Ferrovie dello Stato. Non nuovo a questo tipo di operazioni, avendo egli già disegnato, a partire dagli anni Venti, numerosi edifici postali e stazioni ferroviarie, Mazzoni delineò la nuova costruzione nel pieno rispetto del l’impianto cittadino adiacente, compiendo preventivamente indagini sui materiali impiegati nella realizzazione degli edifici circostanti.

Il dialogo col centro piacentiniano. Una delle condizioni indispensabili poste dal Comune per la cessione a titolo gratuita del terreno destinato ad accogliere la nuova sede delle poste di Bergamo era, fortunatamente, che l’impianto dell’edificio dialogasse perfettamente con le architetture del vicino centro dirigenziale e commerciale piacentiniano. Fu realizzato pertanto un edificio monumentale moderno, dalle forme pulite, che, allo stesso tempo, si amalgamava alla perfezione con gli elementi più antichi della città: ne è un esempio la torre dell’orologio volta esplicitamente a richiamare lo stile della Torre dei Caduti in piazza Vittorio Veneto.

 

Il centro piacentiniano - Francesco

 

I due teleri di Sironi. Era consuetudine dell’architetto Mazzoni di avvalersi di valenti artisti per la decorazione degli edifici da lui ideati. Anche in questo caso non fece eccezione e nel 1931 Mario Sironi venne incaricato della decorazione della saletta di accettazione dei telegrammi, area dell’edificio alla quale Mazzoni dedicò particolare attenzione. La collaborazione tra i due si tradusse in un lavoro sinergico volto all’esaltazione massima dello spazio della piccola sala. Nel giugno del 1932, dopo la definitiva approvazione dei bozzetti da parte del dicastero alle Comunicazioni, Mario Sironi iniziò i lavori di realizzazione delle opere.

Spesso scambiata per un affresco, la decorazione consiste in realtà in due teleri quadrati di circa tre metri e mezzo che vennero realizzati in studio per poi essere solo successivamente apposti alle pareti della saletta dei telegrammi. Le due tele sono di particolare rilevanza perché sono tra i primi esempi di raffigurazione murale dell’artista sardo e, soprattutto , sono l’unico esempio in tutta la produzione sironiana, di tele applicate a muro a fingere la tecnica dell’affresco. A partire dagli Anni Trenta, Mario Sironi, all’epoca pittore già affermato, decide di dedicarsi, quasi esclusivamente a progetti legati alla grande decorazione degli spazi pubblici. Alla base la volontà di creare un’arte democratica ed egualitaria, non relegata al mondo del collezionismo privato e delle mostre, ma fruibile quotidianamente da un pubblico più vasto. L’idea di arte come veicolo di comunicazione di massa, capace di trasmettere messaggi politici, è uno dei grandi temi degli anni Trenta.

 

 

L’importanza dei due teleri merita di essere sottolineata , come altri prima hanno fatto, sotto diverse angolazioni, ma certo la più significativa deve tener conto del ruolo e del valore delle due opere nell’intero panorama della produzione dell’artista: quando Sironi le realizza è a un punto decisivo del suo complesso e coerente itinerario, non a caso nello stesso periodo, 1933, giunge alla formulazione del Manifesto della Pittura Murale.

Il tema del lavoro. A Bergamo Sironi rappresenta un tema molto ricorrente nella sua produzione, ovvero il tema del lavoro che in questo caso connota in modo specifico nelle sue accezioni di lavoro nei campi e lavoro in città: «Il lavoro che impegna l’uomo costruttore è soggetto di molte pitture sironiane, diverse per tecniche e dimensioni (da quelle monumentali ai quadri da cavalletto), apologia dichiarata e costante dell’” utopia moderna” che l’artista ha vissuto dagli anni dell’attività futurista» (V. Fagone 1999, p. 19).

I due dipinti, inoltre, dal punto di vista storico-artistico, hanno una particolare rilevanza oltre che per la collocazione cronologica nell’itinerario creativo di Mario Sironi per le modalità rappresentative e per la tecnica adottata. Importante sottolineare infatti, come Sironi, grazie anche a un gioco prospettico, accentui i volumi delle figure “attuali” in primo piano rispetto alle personificazioni dell’Architettura e dell’Agricoltura, allegorie di sapore classicheggiante collocate sullo sfondo, un effetto rafforzato dalla collocazione dei due dipinti, a circa due metri da terra, uno di fronte all’altro, così da esaltare le immagini dell’architetto e del coltivatore. Particolare dunque il trattamento dei soggetti in cui si bilanciano splendidamente modernità di temi e trasposta visione classica.

 

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Il lavoro nei campi, Mario Sironi.

 

1972: il discusso restauro. A giugno del 1972, il restauratore bergamasco Antonio Benigni riceve una raccomandata dal Ministero delle Poste di Roma, nella quale gli si comunica che, di comune accordo con la Sovrintendenza di Milano, vengono a lui affidati i lavori di restauro delle due opere di Sironi del Palazzo delle Poste di Bergamo. Non essendo ancora passati cinquant’anni dalla loro creazione infatti, questi manufatti secondo la legge erano da considerarsi ancora beni dell’ente proprietario e proprio per questo motivo fu il Ministero e non la Sovrintendenza a conferire l’incarico al restauratore bergamasco.

La necessità di operare un restauro nasce da una lettera inviata nel marzo del 1972 da Trento Longaretti a un quotidiano locale, lettera nella quale il professore, allarmato dallo stato di degrado in cui versano tali tele, auspica un pronto intervento delle autorità cittadine o di chi di dovere. Durante un sopralluogo ci si accorge ben presto (primo colpo di scena) che i presunti affreschi sironiani altro non sono che delle tele incollate alla parete tramite una potente colla da falegname. Nel novembre del 1972 hanno ufficialmente inizio i lavori “di stacco”. Giunto quasi alla metà del dipinto, Benigni si accorge che c’è un ulteriore sorpresa che lo attende.

 

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Il lavoro in città, Mario Sironi.

 

Egli scopre (secondo colpo di scena) che in realtà il dipinto non è costituito da un’unica tela, bensì è formato da due tele diverse sovrapposte l’una all’altra. Il pittore aveva unito le due tele incollandole, lasciando la parte ad unione delle due non dipinta e ben nascosta. Tuttavia, il 23 novembre del 1972 appare su un quotidiano locale (ed eccoci al terzo colpo di scena) una lettera in cui il presidente di Italia Nostra, l’architetto Abramo Bugini, accusa Antonio Benigni di aver deliberatamente tagliato le tele durante le operazioni di rimozione. «È uscita tutta Milano! Tutta Milano è arrivata a controllare! Dalla moglie del Sironi, dal Degrada a Russoli, quelli di Roma dicendomi “ma come lei ha rovinato un quadro del genere...”. Io nel frattempo avevo staccato anche l’altra parte, quindi avevo in studio l’esempio “tranquillo” che la cosa era stata fatta perfettamente. Un lavoro chiaro. Quando hanno visto che c’era questa soluzione, che la tela non era stata tagliata da me, si sono messi il cuore in pace» (Video-intervista ad Antonio Benigni del 18 luglio 2011 Archivio Antonio Benigni (AAB), ASRI, presso Associazione Giovanni Secco Suardo, Lurano, Bergamo).

Spariti per 27 anni. Una volta conclusi i lavori di restauro, iniziarono tutta una serie di peregrinazioni che privarono la saletta delle poste di queste due tele per ben ventisette anni. In un primo momento i dipinti vennero trasferiti a Milano dove, tra febbraio e marzo del 1973, si tenne presso Palazzo Reale la mostra monografica Mario Sironi. Al termine, nel marzo del 1973, i due teleri fecero breve ritorno a Bergamo. Ritenuta però la sala dei telegrafi non più in condizione di garantire una perfetta conservazione dei dipinti appena “salvati”, il Ministero delle Poste ne decise il trasferimento presso la propria sede a Roma. Giunte nella capitale nel giugno del 1973, le opere vi rimasero per i successivi ventisette anni.

 

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Mario Sironi.

 

Il malcontento di Bergamo non tardò a farsi sentire e già nel settembre del 1973 vennero pubblicate le prime lettere di lamentela. Il 4 settembre è Attilio Rossi, pittore e perito d’arte del tribunale e della Camera di Commercio, il primo (molti altri si accoderanno) a richiedere il ritorno a Bergamo delle opere del Sironi. Nella sua lettera, pubblicata sul locale quotidiano, il pittore si chiede se questo provvedimento sia frutto di «un abuso autoritario dei cervelloni romani o letargo e stupidità dei bergamaschi?». Si aggiunga che, dopo aver perso le opere d’arte che la impreziosivano, la sala telegrafi, smessa la sua funzione originaria, veniva chiusa malinconicamente al pubblico. Venivano tamponate le due porte comunicanti con l’atrio e demolita la parte inferiore (fino all’altezza di circa 2,5 metri) della parete adibita a sportelleria che divideva l’area per il pubblico da quella riservata al lavoro degli impiegati.

La restituzione a Bergamo e la ricollocazione. La situazione si sbloccò, almeno parzialmente, nel 1997 quando i due dipinti tornarono a Bergamo per la mostra a cura della Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea Sironi. Il lavoro e l’arte, presso la Sala dei Giuristi del Palazzo della Ragione. Terminata la mostra, i teleri trovarono rifugio presso la Gamec. La questione si risolse definitivamente il 30 luglio del 1998, quando l’allora assessore alla cultura Gian Gabriele Vertova e il direttore della Gamec Vittorio Fagone si recarono a Roma per discuterne direttamente presso il Ministero dei Beni culturali, presieduto all’epoca da Walter Veltroni. Al termine di un incontro tenutosi nella sala Malajoli dell’Ufficio Centrale per i Beni Archeologici, Architettonici e Artistici del Ministero per i Beni Culturali, alla presenza di rappresentanti dei Ministeri delle Finanze, dei Beni Culturali e delle Comunicazioni, Vertova e Fagone ottennero di poter riportare definitivamente a Bergamo le tele di Mario Sironi.

 

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Il palazzo delle Poste di Bergamo.

 

Si decise quindi di non lasciare le tele presso la Gamec ma di ricollocarle nel luogo per il quale erano state originariamente pensate: la sala dei Telegrafi del Palazzo delle Poste. Seguì la ricostruzione filologica dell’ufficio del palazzo delle poste volta a ricreare l’ambiente progettato da Mazzoni nella sua originaria espressione organica di sintesi architettonica-artistica. Terminati i lavori di ripristino, il primo dicembre del 1999 ci fu una grande inaugurazione e così si mise fine a quella che, nell’occasione, Emanuela Daffra definì una vera e propria mutilazione: «Questa mutilazione è stata sanata, e da adesso si potrà nuovamente ragionare sull’orchestrazione di insieme, sull’unione studiata di spazi, luci, decoro e membrature, che in un certo senso assorbe le tele, ma ne costituisce anche il più autentico tessuto vitale».

*Grazie a Irene Pedretti per il materiale fornito in merito agli interventi di Antonio Benigni.

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