Non siamo un paese per giovani

Perché (pochi) inglesi o americani hanno scelto di vivere in Italia

Perché (pochi) inglesi o americani hanno scelto di vivere in Italia
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Poche settimane fa, avevamo evidenziato come l’Italia si fosse piazzata al penultimo posto in un vasto sondaggio fra la manodopera qualificata e gli studenti impegnati in periodi di lavoro o studio all’estero. I cosiddetti expats, infatti, sia italiani che stranieri, trovano che, su un panel di 39 nazioni, vivere in Italia sia meglio solamente rispetto al Brasile, e solo grazie alla portata culturale e sociale dell’esperienza nella nostra penisola, che altrimenti figura in fondo a qualsiasi classifica in termini di qualità della vita, possibilità di investimenti e garanzie economiche per il futuro.

La domanda che ci si pone è: chi sono gli expats in Italia? È chiaro che il nostro paese abbia attratto, nel corso degli ultimi decenni, un fenomeno di migrazione da Paesi in via di sviluppo o del terzo mondo, ma non è riuscito in nessun modo a catalizzare l’attenzione di giovani ( o meno) professionisti provenienti dalle zone più vitali del pianeta in termini di inventiva e capacità di creare mercato.

Solo i polacchi arrivano dall’Ocse. Le statistiche indicano che nel 2011, anno dell’ultimo censimento svolto in Italia, solo due nazionalità fra le prime 18 presenti sono legate all’Unione Europea (Romania e Polonia) e solo quest’ultima fa parte dell’area OCSE, indicante i Paesi che abbiano completato il processo di sviluppo necessario. Il paragone con l’Irlanda, ovvero il penultimo paese dell’UE in questa classifica (si posizionano al 32° posto), mostra che anche un Paese con evidenti problemi economici, derivanti dalla crisi del 2008-2009, riesce ad attrarre un numero maggiore di expats rispetto all’Italia: assieme ai polacchi e ai britannici, che costituiscono il maggiore gruppo non irlandese, figurano i tedeschi (lo 0,24% della popolazione), oppure gli americani (0,23%), mentre gli italiani raggiungono lo (0,16%). I dati italiani del 2011 mostrano che l’ultimo gruppo fra quelli rilevanti, ovvero gli egiziani (poi aumentati dopo la primavera araba e gli sbarchi del 2014), costituivano lo 0,11%, mentre tutte le altre componenti rimangono a figure decisamente trascurabili.

 

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Non per denaro. Appurato, quindi, che il fenomeno degli Expats è infinitamente inferiore rispetto a quello del Paese che ci precede all’interno dell’Unione Europea, perchè mai un inglese o un americano dovrebbero decidere di stabilirsi da noi? Lo abbiamo chiesto ai diretti interessati. Jill, inglese, sostiene che le difficoltà economiche vengano superate da altri fattori che non si possono trovare altrove: «Sono qui da 12 anni e non sono mai stata così povera dal punto di vista finanziario, ma nemmeno così felice, tranquilla e soddisfatta della mia vita». Jill ha anche scritto un libro, Diario di un genitore single all’estero, in cui racconta la propria vita italiana, nella quale si occupa prevalentemente di insegnare inglese e gestire proprietà di altri stranieri in Italia. «Faccio anche piccoli lavori nell’ambito della costruzione, ma il resto del tempo lo passo sul divano a degustare vini locali». Proverà ad insegnare italiano anche Sliane, che arriva dagli States, ma la sua esperienza non è iniziata col piede giusto: «La parte burocratica per trasferirsi in Italia è un incubo. Devo ottenere un permesso di lavoro, ma per ottenerlo devo prima trovare un lavoro. È un circolo vizioso».

L’incubo della burocrazia. Sue, invece, ha deciso di trascorrere gli anni della pensione in Italia, cosa che molti anglosassoni preferiscono fare in Spagna. «La parte più interessante di tutto è stata riuscire a soddisfare tutto ciò che il governo richiedeva perchè potessimo rimanere in Italia. Credo che questa parte possa arrivare fino a tre anni di durata, ma, ad eccezione di questo, la vita è stupenda». E come ci si aggiusta, quando non si parla italiano e gli impiegati comunali non comunicano in inglese? «Per fortuna mio marito parla abbastanza bene per farsi capire, altrimenti abbiamo amici ai quali ci rivolgiamo in caso di necessità».

 

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Dipendenti pubblici? Rimandati. Per Peter, invece, le lungaggini burocratiche e, talvolta, l’ignoranza dei dipendenti pubblici, sono diventati una sorta di persecuzione: «Una volta i carabinieri mi hanno fermato lamentando che la mia patente fosse ucraina e non britannica perchè leggevano UK (United Kingdom) anzichè GB (Gran Bretagna). Una volta, alla ASL, mi hanno detto che avrei dovuto pagare la visita come un non comunitario perchè il Regno Unito non fa parte della zona Euro, sebbene la discriminante sia l’appartenenza all’Unione Europea. Inoltre è davvero insensatamente complicato e costoso gestire un’attività in proprio in Italia». E allora perchè sei arrivato? «Sole, clima e vino», risponde sorridendo.

È andata molto meglio a Joanne, anche lei dall’Inghilterra: «Ci siamo trasferiti nel Lazio circa un mese fa ed è andato tutto sorprendentemente liscio. Abbiamo ottenuto il nostro codice fiscale già all’ambasciata a Londra. Lavoreremo nell’ambito del turismo». Difficoltà? «Davvero poche, siamo stati accolti benissimo dalla comunità locale. Credo sia fondamentale non essere critici nei confronti del paese in cui ci si trasferisce».

Una vita in Italia. Chi, invece, vive l’Italia da oltre 30 anni, ha potuto vedere con occhi diversi i cambiamenti che il nostro Paese ha subito. È il caso di Geoffrey, che arrivò nei primi anni ’70: «Ho vissuto prima in Toscana, poi a Roma. Ho iniziato ad amare la vostra lingua, poi nella capitale mi piaceva come la città fosse vibrante, la sua storia, anche il senso di confusione. Quell’Italia, però, non c’è più». E cos’è successo, soprattutto dal punto di vista di un inglese? «La corruzione è arrivata ovunque, quell’attitudine tipica del periodo craxiano del Così fan tutti, la mancanza di risposta della politica ai bisogni dei cittadini. Ci sono state delle proteste, ma sono state per lo più limitate ai social media, e mi includo in questo gruppo, credo si sia fatto poco per cambiare le cose». Cos’ha fatto nel corso degli anni durante tutti questi cambiamenti? «Io sono orgoglioso di aver preso la cittadinanza italiana, ma come ogni cittadino ho anche dei doveri. Il problema è che alla mia età (oltre 70 anni) faccio fatica a fare la mia parte nel cercare di cambiare le cose». E che eredità pensa di lasciare a questo paese? «Mio figlio ha già fatto le valigie ed ha un lavoro ben retribuito in Norvegia, e anche io e mia moglie stiamo pensando di passare i nostri ultimi giorni altrove. Forse Malta o Portogallo». Non è un paese per giovani, e nemmeno per pensionati.

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