La Cassazione boccia un ricorso perchè "troppo prolisso"
La Cassazione ha bocciato un ricorso contro una sentenza d’appello perché «troppo prolisso». La sentenza di rigetto della Corte Suprema non attiene solo ai punti in discussione o di legittimità argomentati nell’atto dalla parte ricorrente (l’Automobile club d’Ivrea), ma si concentra invece sull’essenzialità e sulla lunghezza dell’atto giudiziario. Tanto da diventare un modello tipico da seguire: un ricorso non può essere più lungo di 20 pagine. Quella della Cassazione si potrebbe perciò definire come un “vademecum della sintesi estrema”: pena la bocciatura del ricorso. «La pedissequa riproduzione dell’intero, letterale, contenuto degli atti processuali - scrivono i magistrati della terza sezione della Cassazione al primo capoverso che illustra le motivazioni del rigetto del ricorso - è del tutto superflua ed equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre che sia informata) la scelta di quanto rileva: la conseguenza è l’inammissibilità del ricorso per Cassazione».
Il caso e la motivazione della Corte Suprema.
La terza sezione civile della Cassazione, nello specifico, si è dovuta imbattere nel ricorso dell’Automobile club d’Ivrea contro la sentenza pronunciata dalla Corte d’appello di Torino: oggetto del contendere erano le spese di gestione dell’ACI di Ivrea. Una vicenda tipica, ma con una particolarità rispetto ad altre situazioni analoghe. Il ricorso “monstre” (gli avvocati dell'ACI di Ivrea avrebbero presentato pagine e pagine) era superfluo in molti punti e decisamente lungo e farraginoso. Insomma, i giudici che si sono trovati davanti ad un atto simile, hanno di fatto dettato le nuove linee guida: non presentare un ricorso più lungo di 20 pagine.
Qualcosa di analogo al caso del ricorso rigettato per eccessiva lungaggine era già accaduto tempo fa con i ricorsi di legittimità legati al fisco dove la Corte Suprema si era già espressa fissando un limite attorno alle venti pagine.
Situazioni simili si stanno facendo strada ed è sempre più probabile che il dettato della Cassazione possa diventare obbligo previsto per legge se sarà approvato uno specifico emendamento del decreto di riforma della giustizia in discussione in questi mesi in Parlamento. La bocciatura del ricorso “troppo prolisso” più che alla scarsa voglia dei giudici di leggersi un “papiro” giuridico, è da attribuirsi ai tempi sterminati della giustizia e, quindi, alla necessità di smaltire migliaia di procedimenti arretrati, uno dei problemi cronici del Paese. Va proprio in questa direzione il “vademecum della brevità” del giudice agli avvocati per evitare sbrodolamenti inutili.
La reazione degli avvocati e, in particolare, degli amministrativisti.
Non si può dire che sia nuova la tendenza a inibire il difensore che non si trasformi ogni volta in un Marcel Proust del diritto quando chiede giustizia. Ma respingere un ricorso perché un legale non è stato capace di sintesi appare come una novità giuridica importante, dicono gli avvocati. Dagli avvocati amministrativisti, però, sembra profilarsi una vera e propria levata di scudi: Andrea Galasso, avvocato del foro torinese intervistato da Repubblica, ammette che «la Cassazione ha ragione a ritenere necessaria una buona dose di sintesi», ma riguardo alle recenti sentenze della Corte Suprema, in cui si afferma che alcuni ricorsi sono troppo prolissi, «siamo di fronte a un caso di cattiveria intellettuale, di malcostume alla rovescia». Galasso si è espresso, inoltre, contro l'ipotesi di porre un tetto di venti pagine per i ricorsi presentati al Tar, come verrebbe stabilito da un emendamento in via d'approvazione da parte del Parlamento nell'ambito del decreto giustizia.
In Parlamento.
In estrama sintesi, il punto, già stato approvato dalla Commissione Affari costituzionali della Camera, è quello dper gli avvocati amministrativisti di scrivere ricorsi "brevi": venti pagine al massimo, mentre quel che sconfina è destinato per sempre all’oblio. Brevità della trattazione, che va in direzione opposta all’abitudine di molti legali che, con il timore di rientrare nei canoni dell’inammissibilità, finiscono per presentare ricorsi-fiume.