Autodidatta della risata

Ol Moròt, il re delle barzellette

Giuseppe Morotti, di Villa di Serio, è stato incoronato da Facebook con più di 20mila MiPiace. Tutto è cominciato con un video postato dopo una cena fra amici. Ora la gente lo riconosce per strada

Ol Moròt, il re delle barzellette
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Come tutte le “star”, Giuseppe Morotti si presenta all’incontro con il suo agente, Miki Morlacchi, amico di lunga data e che quando occorre gli fa anche da spalla nelle esibizioni. Morlacchi è di Torre Boldone, Morotti invece abita ad Albano Sant’Alessandro, ma ci tiene a precisare di essere di Villa di Serio. Con un’ulteriore puntualizzazione: «A Villa di Serio quando dici “Moròt”, ti chiedono: “Che Moròt?”. Allora rispondo: “Scèt del sìndech”. Bòna, capito».

Giuseppe ha 57 anni ma ne dimostra 40. Fisico asciutto, parlantina veloce, è stato incoronato da Facebook come il miglior barzellettista (si dice così) bergamasco. Suo padre è stato il sindaco storico di Villa di Serio, primo cittadino per 10 anni che in realtà furono 15, perché era capogruppo in Consiglio Comunale quando il suo predecessore era il senatore Cavalli, che però non c’era mai perché era sempre a Roma. Perciò all’elezione successiva Morotti senior si presentò come capolista e regnò indisturbato per altri due lustri, dando al paese sviluppo e sei figli.

Giuseppe non si è dato alla politica. I genitori e l’ambiente lo hanno attrezzato di una voglia di lavorare non comune e lui si è buttato in mille attività. In più, la natura lo ha dotato di un innato sense of humor e nelle cene fra amici sono quarant’anni che li fa ridere raccontando barzellette. Un genere comico in disuso, riportato alla ribalta nazionale da un noto Silvio.

 

 

Fino a due anni e mezzo fa, che Morotti avesse il talento di tener su la compagnia lo sapevano solo i suoi parenti e gli amici. Finché una sera, durante una cena a base di polenta e uccelli al Passo di Croce Domini, a Miki venne l’idea di filmarlo col cellulare mentre raccontava “quella della Marisa”. Arrivato a casa postò il video su facebook. Da allora il “Moròt” è diventato un personaggio. Di quelli che nascono dal basso e si affermano per forza propria attraverso il passaparola, che nel mondo di oggi vuol dire whatsapp (in bergamasco uozzapp). Il suo profilo facebook ha più di 20mila “mi piace” e la gente lo riconosce per strada. Quattro giorni dopo quella cena il video aveva già raggiunto le 80 mila visualizzazioni e la prima avvisaglia che il successo avrebbe varcato i confini delle Orobie arrivò dieci giorni dopo, quando suo figlio, che vive a Londra, inviò un messaggio alla sorella: «Mi è arrivato un video, ma chi me l’ha mandato non sapeva che è nostro padre». Da bergamasco a bergamasco, seguendo le invisibili e battutissime autostrade di internet, Morotti è arrivato in Australia, in Canada, in Colombia, per poi magari tornare in pochi secondi a Carona. Una barzelletta tira l’altra e oggi il fedele Miki ne ha filmate e postate una sessantina. E siamo solo all’inizio.

Il titolo però si conquista sul campo e Morotti per aggiudicarselo ha dovuto partecipare una cena in territorio straniero, a Brescia, dove era stato invitato da un gruppo di appassionati, che al termine della serata avevano organizzato una gara di barzellette fra un bergamasco e un bresciano. C’era perfino una specie di applausometro. Racconta Giuseppe: «Noi gli abbiamo detto a quelli là: come ospiti partiamo per secondi e col Miki mi son messo d’accordo: comincio piano e tengo le più belle per la fine. Parte il bresciano e il Miki mi dà di gomito: “Morot, vai con una decisa che la finiamo subito”. Alla terza barzelletta hanno interrotto la competizione e mi hanno consegnato il trofeo, un bottiglione di Magnum, a me che sono pure astemio. Quel giorno avevo fatto il turno dalle 2 alle 10 (le 22), doccia e via di corsa, all’una di notte è cominciato il confronto e alla terza barzelletta era tutto finito».

 

 

Ora comincia l’intervista. Un’avvertenza, prima di proseguire nella lettura. È stata realizzata in lingua mista italiano-bergamasco e per cogliere appieno l’efficacia delle risposte, chi conosce il dialetto è opportuno che le traduca mentalmente in bergamasco, tanto meglio se con l’accento della Valseriana.

Prima domanda: Morotti, lei racconta barzellette solo in dialetto?
«No, le dico anche in italiano perché dove lavoro io ci sono quattro siciliani che non capiscono il bergamasco. Gli extracomunitari invece non fanno nessuna fatica. C’ho lì un nero, un senegalese, che è quello che ride più di tutti. Anche i marocchini. Ma a raccontarle in italiano si perde molto, almeno il 50 percento, anche se “quella dei sardi"…».

Quella è in italiano, ma a giudicare dai commenti su facebook pare che i sardi si siano offesi…
«È vero, ma altrettanti sardi hanno replicato a quelli arrabbiati: “Non so se dobbiamo ridere perché è bella la barzelletta o perché voi siete ignoranti e non capite che è una barzelletta”. È una barzelletta! Cosa dovrebbero dire allora i carabinieri. Io ho tanti amici sardi e uno di loro ha scritto: “Pensate se il Gavino (il protagonista della barzelletta) fosse anche carabiniere”. Ma ridete un po’, osti».

È vero che i suoi fan la fermano per strada?
«Un anno e mezzo fa stavo correndo e parlavo con un altro. Ce n’era uno girato di spalle col cane, si volta di scatto e dice: “Ma lü l’è chel di barzelète” (ma lei è quello delle barzellette). Mi riconoscono dalla voce».

 


Ma lei chiacchiera anche mentre corre?
«Sono undici anni che faccio corsa e il Fantoni, uno fortissimo che ha vinto anche la coppa del mondo di maratona, diceva: “Il Moròt quando salivamo sui Torni in Città Alta - gli altri erano tutti più forti di me - nell’ultimo pezzo si metteva a raccontare la barzelletta e la teneva lunga. Così quando c’era l'ultimo strappo sparava la battuta, noi ci mettevamo a ridere e lui riusciva a starci alle costole».

Qual è il segreto nel raccontare le barzellette, il tempo della battuta?
«L’espressione, la mimica, il dialetto, ma anche il tempo. La battuta finale deve essere veloce. A volte però non la si coglie subito e a me viene automatico ripeterla, così la capiscono tutti. La barzelletta deve arrivare a tutti, deve essere trasversale. Poi ci sono quelli che si offendono, ma pazienza. In “quella del venditore” a un certo uno dice una cifra e l’altro commenta: “figaaa”, ma in quel contesto, e pronunciata in dialetto, non è una volgarità, è una sorta di intercalare. Nella barzelletta, d’altra parte, ci sta tutto. Non dico che sia necessario essere volgari o razzisti o sessisti, ma qualcosa di irriverente ci deve essere dentro».

Dove vanno a parare le barzellette?
«Gira e rigira van quasi tutte in quella cosa là, nel sesso».

 

 

Quante ne ha pubblicate?
«Sulla mia pagina facebook ce ne sono una cinquantina. La pagina è nata perché mia figlia, che si vergogna un po’ di questa cosa, era tormentata da quelli che le chiedevano dove trovare i video. Per toglierseli di torno ne ha caricate venti in un colpo e a quelli interessati diceva: andate là. Una settimana dopo ne ha sparate altre venti. Sbagliando, perché le barzellette andrebbero centellinate, dopo un po’ stufano».

Suo figlio invece…
«Lui mi chiama da Londra: “Papà, mandami quella del toscano o quell’altra...”. Trova altri bergamaschi in giro, le invia con whatsapp e si divertono. Sua moglie è una ragazza giapponese e ogni volta che posto una barzelletta su facebook ho minimo 50 condivisioni dal Giappone. Só mia, i grigna sèmper lur (Non so, loro ridono sempre)».

Non ha mani pensato di fare degli spettacoli?
«Qualcuno me l’ha chiesto, ma a parte il fatto che le cose si complicherebbero perché dovrei farmi pagare e aprire una partita Iva, il mio palcoscenico è quello di un gruppo di amici a tavola, una compagnia di 15-20 persone. Mettersi davanti a un pubblico con un microfono, che magari va e non va, non è nelle mie corde. Sabato l’altro ero a cena in un ristorante nel bresciano, non c’era nessuno. A un certo punto sono arrivati in trenta per festeggiare un addio al celibato: “Amò öna, amò öna”, non mi lasciavano più andare. E a mia moglie continuavano a dire: “Si sieda, signora”. E lei: “No, non mi siedo, altrimenti non andiamo più a casa».

 

 

Lei non ha studiato recitazione, non ha fatto l’accademia di arte drammatica?
«Macché studi, ho sempre lavorato 14 ore al giorno, io. L’unica cosa drammatica è che ad agosto sono 42 anni che lavoro e mi mancano ancora dieci mesi per andare in pensione».

Ma quante cose fa per essere tanto impegnato?
«Vado anche a correre tre volte la settimana. Il mio motto è: “Go mìa tép de pert ol tép” (“non ho tempo di perdere tempo”). Ho aiutato un amico avvocato a fare il trasloco e a un certo punto mi fa: “Hai sete?”. “Sì”. “Andiamo al bar”. “Macché bar – gli ho risposto – porta qui una bottiglia d’acqua che la beviamo”. Alle cinque e mezza torna: “Stacchiamo”. “Stacchiamo cosa: qui si va avanti fin che non abbiamo finito, se hai impegni disdici tutto perché alle 8 deve essere tutto a posto”. Detto e fatto, poi alle 10 sono andato in fabbrica per il turno di notte. Non ho tempo, io”.

Sua moglie cosa dice?
«È contenta, non ci sono mai».

Qual è il suo repertorio?
«Prendo anche vecchie barzellette, a me piace trasformarle, renderle moderne. E poi, anche con gli amici che le hanno sentite chissà quante volte, devi sempre averne una o due nuove. Comunque c’è gente che viene a raccontarmele per poi farmele elaborare».

È facile far ridere?
«Sì, eccetto quando hai davanti uno che ti guarda e non ride. Putt... Eva, lo faccio spostare: spòstet! A casa di un tale ho raccontato la barzelletta del cieco, che è una delle più belle, e avevo davanti una signora con una faccia impietrita. Tutti hanno riso, lei no. La guardo e le dico: “Ho sbagliato qualcosa?”. “No, ma a me le barzellette non fanno ridere”. Ma vaff…”. Questi qui ti deprimono, è come aver davanti un morto che ti fissa».

 

 

Serve empatia con il pubblico…
«Stando attenti anche al rischio opposto. Non bisogna mai esagerare perché quando ne racconti troppe si confondono nel cervello di chi ascolta. Dieci, non di più».

Berlusconi è un bravo barzellettista?
«Non male, ma c’è qualcosa di artificiale: quelli in parte a lui devono ridere per forza. Anch’io avevo un direttore, un veneto, che era negato a raccontarle. Le barzellette erano belle, ma lui le guastava: rideva solo il vicedirettore perché doveva farlo. Io invece al direttore dicevo: non sei capace, smettila, non puoi mettere sul mercato una barzelletta rovinata».

Perché a lei piace raccontarle?
«Perché mi diverto io. Il primo che ride sono io».

A chi si ispira?
«Il mio mito è Totò. C’è un film in cui è in carcere e a un certo punto entra Macario. All’ora d’aria si trovano insieme e uno dice: “18”. E tutti si mettono a ridere; “37”, e tutti si mettono a ridere. Macario si rivolge a Totò: “Perché ridono?”. “Perché le barzellette sono sempre quelle ed è inutile ripeterle, diciamo il numero, ci vengono in mente e ridiamo”. “Posso raccontarne una io?”, chiede Macario. “Va bene”. “42!”. E non ride nessuno. E Totò: “Vedi, non sei capace di raccontarle».

Ci risiamo: come si fa?
«Non c’è una tecnica, la barzelletta va raccontata e basta, come ti viene, accompagnata con i gesti, perché la sola voce non rende fino in fondo. Poi tutto dipende dall’entusiasmo di chi le racconta e di chi le ascolta. Se ti trovi davanti gente in giacca e cravatta che parla quasi sottovoce, meglio lasciar perdere. A volte mi chiedono di raccontarle anche in ambienti seri, ma sono il primo a dire che non sempre e non su tutto si può scherzare. Ci sono locali, invece, in cui anche i proprietari si siedono con te e si avvicinano i tavoli».

 

 

Qual è il limite invalicabile?
«Io dico sempre che non bisogna offendere. Spesso però il razzismo o la volgarità sono nella testa di chi ascolta».

Quando non si deve raccontare una barzelletta?
«È difficile dirlo. Dipende sempre molto da chi hai davanti. Un’amica che aveva avuto un lutto in famiglia un giorno mi ha chiamato: “Andiamo a cena, per favore, ho bisogno di rasserenarmi e mandar via i pensieri neri e tutta la tristezza che ho addosso”. In tanti mi hanno confidato che la sera, quando li prende la malinconia, si mettono ad ascoltare qualche mia barzelletta su internet: ridono un po’ e vanno a letto contenti. Ho conosciuto un ragazzo di 27 anni con un tumore in fase terminale e 15 giorni prima che morisse l’ho fatto ridere per un’ora. Dopo il funerale sua mamma mi ha detto: “Ti ringrazio Giuseppe, perché almeno quel giorno mio figlio si è divertito”».

Quali sono le sue barzellette più belle?
«La prima è stata quella della Marisa. Poi quella del cieco e quella del missionario. Volete sentirle?».

 

 

Una a sorpesa, dai.
«Racconto questa che è difficile, di quelle che non si capiscono subito. C’è un tipo di colore con un pappagallo sulla spalla. Arriva uno, guarda ammirato e dice: bello, davvero bello. Ma di che razza è? Risposta: èdet mìa che l’è nìgher (non vedi che è nero?)”. A questo punto la gente di solito non ride, deve pensarci un momento, ma poi quando capisce che ha risposto il pappagallo… Tra parentesi, è la preferita del mio collega senegalese. Per stare allegri ci vuole un cuore semplice come il suo».

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