Il ritorno del Pci
“È necessario non continuare su vecchie strade ma inventarne di nuove per unificare le forze di progresso”: quando Achille Occhetto, allora segretario del Pci, pronunciò queste parole al congresso del partito del 1989 alla Bolognina, quartiere del capoluogo emiliano, di primo acchito non furono in molti a coglierne la reale portata. Il comunismo, in Italia, veniva da un decennio particolarmente difficile, che aveva visto la morte di Enrico Berlinguer, la sconfitta al referendum sulla cosiddetta “scala mobile”, e la crisi complessiva del movimento operaio. Oltreché, naturalmente, il crollo del muro di Berlino appena tre giorni prima del congresso. Si pensava ad un auspicio, una rievocazione motivatrice, al limite ad uno sfogo: nessuno, o pochissimi, immaginarono che si trattasse dell’inizio della fine del Pci, che due anni dopo trovò ufficialità nello scioglimento del partito e nella nascita del Pds. Ma oggi, a 27 anni dalla “Svolta della Bolognina”, il comunismo in Italia cerca di ripartire, ed intende farlo esattamente da dove aveva lasciato: da Bologna e dalla “falce e martello”. Il 26 giugno, infatti, verrà ufficialmente rilanciato il Partito comunista italiano, che rimetterà al centro il simbolo storico, l’ortodossia, l’ideologia e gli scopi della formazione politica che fu di Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti e Pietro Ingrao.
Un po’ di storia, per cominciare: la “Svolta della Bolognina”. Il Pci giungeva al suo diciottesimo congresso, quello del 1989, non nel pieno della serenità politica: un sostenitore su tre spingeva per togliere la parola “comunista” dal nome del partito, una corposa parte dell’elettorato storico era defluito verso il Psi, e una nutrita schiera dei protagonisti della vita partitica, su tutti l’ala migliorista guidata da Giorgio Napolitano, spingeva affinché il Pci prendesse una svolta più in linea con le moderne formazioni riformiste europee. Era il 12 novembre, e già dalle 11 del mattino un gruppo di partigiani si era riunito in una sala comunale in via Tibaldi 17, a Bologna, per le celebrazioni del quarantacinquesimo anniversario della battaglia di Porta Lame, un episodio fondamentale della Resistenza italiana. Achille Occhetto partecipò a sorpresa all’incontro. In sala erano presenti solo due cronisti, il primo dell’Unità, l’altro dell’Ansa, a sottolineare come, anche mediaticamente, non fosse stato dato particolarmente peso all’evento. Occhetto chiese la parola e parlò per circa sette minuti per quello che doveva essere un discorso commemorativo, di circostanza: disse, invece, che era tempo di “andare avanti con lo stesso coraggio che fu dimostrato durante la Resistenza. Gorbaciov prima di dare il via ai cambiamenti in URSS incontrò i reduci e gli disse: voi avete vinto la Seconda Guerra Mondiale, ora se non volete che venga persa non bisogna conservare ma impegnarsi in grandi trasformazioni”. Pronunciò anche le parole poi diventate più celebri: era necessario “non continuare su vecchie strade ma inventarne di nuove per unificare le forze di progresso”. Al cronista che gli chiese se le sue parole lasciassero presagire che il Pci avrebbe potuto anche cambiare nome, lui rispose: “Lasciano presagire tutto”. La svolta era definitivamente iniziata.
Lo scioglimento del 1991. Il 20 novembre 1989 si aprì il Comitato Centrale del partito a Roma: i suoi 300 membri discussero della svolta per cinque giorni (venendo accolti da 200 militanti in protesta). Nella sua relazione introduttiva, Occhetto affermò di “condividere il tormento dei compagni”, ma chiese: “Fino a quando una forza di sinistra può durare senza risolvere il problema del potere, cioè di un potere diverso?”. All’interno del Pci la divisione fra favorevoli e contrari ad un cambio concettuale così radicale era marcata, ma la maggioranza era con Occhetto: il Comitato Centrale si concluse il 24 novembre con il voto di 326 membri su 374, i “sì” furono 219, i “no” 73 e gli astenuti 34. Il Comitato Centrale assunse la proposta del segretario “di dar vita ad una fase costituente di una nuova formazione politica”. Dopo poco più di un anno di lavori, nel gennaio del 1991, si tenne a Rimini il ventesimo ed ultimo congresso del Pci, che ne sancì la definitiva fine per inaugurare, un mese dopo, la nascita del Partito dei democratici di sinistra. Alcuni decisero di non battere la via della svolta, e di mantenere l’identità comunista di una vita: il caso più noto fu quello di Fausto Bertinotti, che diede vita a Rifondazione comunista.
Una nuova alba. L’ultimo ventennio ha visto un incontrollabile proliferare di sigle e piccoli partiti di ispirazione e matrice comunista, nessuno dei quali, però, chiaramente rifacentesi al simbolo che fu. La batosta elettorale del 2008 (quella in cui, per la prima volta nella storia repubblicana, ha visto formarsi un Parlamento senza nemmeno un eletto sotto il segno, anche solo lontanamente evocato, della falce e del martello) pareva aver messo definitivamente la parola fine a qualsiasi tipo di velleità comunista, dal punto di vista partitico. E invece oggi, nel 2016, dobbiamo ricrederci: il 26 giugno, a Bologna, vagirà ufficialmente il Partito comunista italiano, che riprenderà il simbolo storico del Pci. Fautori di questa storica rinascita sono quel che rimane del Pdci (quelli di Oliviero Diliberto, per intenderci) e di Rifondazione comunista. L’evento sarà intitolato “Un futuro grande come una storia. La nostra”. Appuntamento al circolo Arci di San Lazzaro di Savena, e la scelta del posto non è casuale, dicono gli organizzatori: ci vogliono solo 17 minuti, infatti, per percorrere la dozzina di chilometri che separano la sede del circolo San Lazzaro, in via Bellaria 7, da via Tibaldi 17, teatro della Svolta della Bolognina.
Dice il documento di presentazione: “Cadute presto le promesse di benessere e democrazia della narrazione borghese del 1989, il capitalismo mostra, senza veli, il suo volto distruttivo. Un pugno di ricchi, che gestisce lo sfruttamento di enormi masse umane e dell'ambiente, è disposto - pur di non cedere, neppure parzialmente, potere e privilegi insopportabili - a provocare una guerra generalizzata e a correre il rischio di desertificare il pianeta. Per non rassegnarsi a queste prospettive terribili e per costruire il futuro è necessaria l'idea generale di un modo diverso di vivere e produrre. Il socialismo, cioè la proprietà e il controllo sociale dei mezzi di produzione, di scambio, d'informazione e delle risorse essenziali per la vita umana, è, per noi, un tema attuale e decisivo”. L’ultimo inghippo riguarda la possibilità effettiva di riutilizzare il simbolo storico del Pci: ci sarà da convincere Ugo Sposetti, presidente dell’Associazione Berlinguer che ha ereditato dai Ds i diritti del simbolo storico del Pci, ma le sensazioni sembrano positive. Manca davvero poco, insomma, ad un clamoroso ritorno.