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L'ossessiva (forse dannosa) difesa dell'amata cucina made in Italy

L'ossessiva (forse dannosa) difesa dell'amata cucina made in Italy
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«Di questi tempi, la pizza è lo specchietto gastronomico che riflette l'ansia Italiana relativa alla globalizzazione. Gli Italiani sono giustamente orgogliosi del loro cibo, ma sono sconcertati di fronte alla bastardizzazione che ne viene fatta nel resto del mondo. Temono che il meglio della civiltà (in italiano nel testo, ndr) italiana venga saccheggiata dagli altri». Così scrive l'Economist, discutendo della fissazione tutta italiana di preservare il proprio patrimonio gastronomico, di fatto impedendone la promozione su larga scala e lasciando così che, a occuparsi di questo e a guadagnarci, siano catene internazionali tutt'altro che fedeli all'originale. Riproponiamo l'interessante analisi del Post a riguardo.

 

Lunedì 6 giugno l’UNESCO ha pubblicato la lista di opere e luoghi candidati a diventare nel 2017 “Patrimoni dell’Umanità”. Il governo italiano, con l’appoggio di numerose associazioni imprenditoriali, ha proposto “l’arte tradizionale dei pizzaiuoli napoletani”. La pizza nel mondo è uno dei principali simboli dell’Italia e del cosiddetto “Made in Italy”, ma come ha notato l’Economist questa settimana non esiste nessuna grande catena di pizzerie di origine italiana: sono gli americani di Domino’s Pizza e Pizza Hut che ottengono i maggiori profitti dalla produzione di pizza. Lo stesso discorso vale per il caffè espresso, forse la vera bevanda nazionale italiana: la catena più grande di caffetterie al mondo è Starbucks, mentre nel consumo casalingo sono gli svizzeri di Nespresso ad aver trasformato l’espresso in un business planetario.

Come scrive l’Economist, l’ossessione italiana per la pizza e gli altri prodotti della “qualità italiana” dice molto sui problemi della nostra economia: siamo i migliori nel richiedere tutele di prodotti tipici –  924 prodotti italiani sono “garantiti” dall’Europa, contro 754 prodotti francesi e 361 prodotti spagnoli – ma non siamo altrettanto bravi a vendere questi prodotti. Uno degli elementi di cui un produttore ha bisogno è una catena di distribuzione in grado di raggiungere tutto il mondo, ma non esiste nessuna catena internazionale di questo tipo che sia italiana. Persino dentro i nostri confini quasi un terzo del mercato è in mano ai francesi di Carrefour e Auchan. Il caso di Eataly, la catena di supermercati che vende prodotti di alta qualità, è stato molto celebrato: ma per quanto di successo ha comunque un fatturato di 400 milioni e difficilmente può competere con i colossi della grande distribuzione, che hanno fatturati nell’ordine delle decine di miliardi di euro.

Le ragioni di questo fallimento sono da ricercare proprio nella “sacralizzazione” del “Made in Italy”, scrive l’Economist: «L’Italia tradisce un innato protezionismo: piuttosto che competere sui mercati mondiali, i produttori italiani chiedono l’aiuto dell’Europa per tutelare i loro marchi tradizionali e massimizzare le rendite che riescono a estrarre dal loro “prodotti di qualità”». Ossessionati dalla tutela delle denominazioni, delle tradizioni e delle indicazioni geografiche, i produttori italiani hanno trascurato aspetti importanti come produttività e inventiva. A volte con effetti paradossali...»

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