Secondo i dati di Demos

Occhio Renzi, i sondaggi son chiari M5S e Di Maio ti stanno staccando

Occhio Renzi, i sondaggi son chiari M5S e Di Maio ti stanno staccando
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Un po' sono i dissidi interni, un po' le vicende pseudo giudiziarie occorse ad alcuni dei suoi, un po' sono i risultati delle amministrative e un po' anche, massì, il fatto che comincia a non apparire più poi tanto nuovo: Matteo Renzi è in difficoltà (“crisi” sarebbe una parola grossa), il suo partito altrettanto se non di più, e il fiato del M5S, elettoralmente parlando, soffia sul suo collo come non mai. Anzi, stando ai più recenti sondaggi, è lo sbuffo dello stesso Premier a ventilare sulla schiena di Di Maio e soci, in piena foga di rincorsa: il Movimento è infatti dato ormai davanti al Pd, e il favore popolare si sta orientando sempre più sul giovane vicepresidente della Camera piuttosto che su Renzi. I sondaggi, a maggior ragione oggi, lasciano un po' il tempo che trovano, ma perlomeno, se non una realtà, esprimono con sufficiente certezza una tendenza. E ora, Primo Ministro?

 

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I dati di Demos. Quello instauratosi ormai fra Pd e M5S è, per usare le parole che un tempo furono di Giorgio Galli, un bipartitismo un po' meno imperfetto rispetto a qualche mese fa. Perché fino a ieri c'era un dato di fatto chiaro, incontrovertibile, buono pure ad essere strumento di minaccia politica: il Pd primo partito del Paese, punto. Epperò, le cose sono parecchio cambiate, come certifica l'ultimo sondaggio di Demos realizzato per Repubblica: oggi infatti, in caso di elezioni, i grillini prenderebbero il 32 percento, a fronte del 30 e briciole del Pd; lontani anni luce i partiti di centrodestra. Un cambiamento netto di percezione e voglie da parte degli elettori, che tolgono un'altra gamba allo sgabello del consenso del Premier dopo che le ultimi comunali ne avevano già ampiamente minato la stabilità. Come se non bastasse, anche il gradimento nei confronti dello stesso Renzi è calato. Cosa non da poco, dal momento che la via politica e strategica del segretario e quella del suo (attuale) partito sono sempre state, alla fine dei conti, parallele: zero possibilità di intersecarsi.

Rispetto ai singoli leader, i numeri dicono che Di Maio gode di un indice di gradimento popolare maggiore rispetto a quello del Premier, tallonato, in questa particolare graduatoria, dallo stesso Grillo e pressoché pareggiato nientemeno che da Luigi De Magistris, fresco di conferma a primo cittadino di Napoli e paladino di quella sinistra che sta più a sinistra di Renzi e cerca come acqua nel deserto un leader attorno cui coalizzarsi (i vari Fassina e Cuperlo ringraziano). Se poi, riporta Demos, si volesse ipotizzare uno scontro al ballottaggio fra Pd e M5S, sarebbero ancora legnate: 55 percento a 45 per i grillini, capaci di attirare maggiormente l'elettorato incerto. Cosa, d'altra parte, resa evidente dai ballottaggi delle amministrative, in cui dove si è tenuto un testa a testa fra dem e pentastellati il risultato è stato un impietoso 19 a 1 per questi ultimi.

 

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I grattacapi di Renzi. Poche storie, se il Pd e il suo segretario non danno un giro di vite in tempi brevi, la sconfitta elettorale sarebbe dietro l'angolo ad ogni occasione, magari già al referendum costituzionale di ottobre, dove il Premier e il suo partito non si giocano tutto, di più. Il problema di Renzi e del Pd oggi è, soprattutto e paradossalmente, il fatto di non rappresentare più quella novità che solo due anni fa consegnò nelle loro mani il 40 percento del consenso elettorale, alle europee. Oggi la novità è Virginia Raggi, è Chiara Appendino, è Luigi Di Maio: un contrappasso a cui il Premier non può pensare di continuare a far fronte attraverso il consueto storytelling, il fronte del cambiamento e quello del “no” a prescindere e via dicendo. Il M5S sta cambiando, piano piano e secondo dinamiche tutte sue, ma sta diventando sempre più un partito vero, fatto di leadership, figure territorialmente forti, c'è quasi pure un programma. Ma resta comunque, ancora, una forza populista e di antipolitica, o perlomeno così è ancora avvertito dalla gente. Un tipo di energia politica che, storicamente, viene affrontata con la forza del merito delle cose, di una struttura partitica verticale e chiara e dell'unione di intenti. Tutte cose che oggi al Pd sono venute clamorosamente meno.

Perché Renzi, oltre che fuori dal proprio giardino, deve guardarci anche all'interno: fioccano, in questi giorni, teorie e complotti che vogliono un ritorno di Enrico Letta, un rilancio di Dario Franceschini e varie altre eventualità al momento del tutto improbabili. Ma sono segni, segni di un partito che rema in mille direzioni diverse, di una coesione che non c'è mai stata ma che ora non si riesce più neppure a far passare per presente, di un partito che, alla fine, sta pagando la mancata costruzione di una classe dirigente forte, a base territoriale e proveniente tutta dalla medesima matrice. Insomma, in parole povere: è un caos in cui tutti pare vogliano fare le scarpe al segretario. Che forse, più che dei grattacapi, ha una colossale emicrania.

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