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La mitica falesia di Cornalba da cui partì (e torna) Simone Moro

La mitica falesia di Cornalba da cui partì (e torna) Simone Moro
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Il primo campetto da basket di Michael Jordan, la prima pista di Valentino Rossi: ogni campione ha il suo luogo del cuore, dove ha iniziato ad allenarsi e a diventare quello che poi tutti sanno. La Corna Bianca (da cui prende il nome il comune Cornalba) è stata la palestra di molti alpinisti moderni, tra i quali spicca Simone Moro, che quest’anno ha coronato il sogno di una vita. «Ma tutto è iniziato qui…», ha voluto esordire; la serata è stata allora l’occasione per congiungere i due estremi opposti della carriera di Moro, gli inizi e l’approdo finale, quello quasi impossibile del Nanga Parbat invernale. L’amministrazione comunale di Cornalba ha voluto fortemente questo evento come punto di inizio di un percorso con Provincia e Regione, nonché come sprone per rilanciare il turismo e rivitalizzare le attività del paese.

Le prime scalate. Dicevamo, Simone Moro è partito dalla falesia di Cornalba, o quasi. «Ho mosso i miei primi passi in Cornagera, a 14-16 anni andavo dove potevo arrivare in bicicletta, fino alla Cava di Nembro. Quando ho conosciuto la falesia di Cornalba ho capito che se riuscivo a scalare questa, allora potevo riuscire a scalare qualsiasi montagna nel mondo». Ci sono infatti alcune vie particolarmente difficili: la Goldrake è un 9a+, una via di 11esimo grado. «Sono arrampicate molto tecniche queste, per niente stupide, dove non basta avere forza nelle braccia». Questi luoghi sono rimasti nel cuore di Simone Moro, che non ha la memoria corta e ora vuole spendersi per rilanciarli: «Voglio restituire al territorio, dopo che da esso ho ricevuto tanto; voglio prestare la mia immagine, ora che sono conosciuto, per aiutare Cornalba e la sua gente». Moro ha poi voluto ricordare Bruno Tassi, colui che ha segnato circa l’80 percento delle vie di Cornalba, a sue spese e mettendo i chiodi a mano, con gran fatica.

 

Simone Moro

 

L’alpinismo invernale. «Non è semplicemente la versione fredda dell’alpinismo normale – ha continuato Moro –. È tutto un altro mondo. Oltre alle temperature, che scendono sotto i meno 40 gradi, bisogna fare i conti con i venti che soffiano a 40/50 chilometri orari quando va bene, ma possono arrivare fino ai 200». Un’altra difficoltà è rappresentata dalle poche ore di luce: «D’estate si parte a mezzanotte per sfruttare al massimo la giornata, d’inverno questo non è possibile perché significherebbe congelare». Ma l’elenco delle problematiche non è terminato: «D’inverno l’acqua non si scioglie da sola, bisogna usare il fornello; quella che si beve è quindi acqua distillata, senza sali né metalli». Infine, ultimo ma non meno gravoso problema: gli sconvolgimenti atmosferici. «Le finestre di bel tempo possono essere anche solo 2 o 3 in tutto l’inverno. Ci sono quindi poche possibilità di acclimatarsi, salendo progressivamente a quote più alte, ridiscendendo ogni volta (si dice “a dente di sega”)». Insomma, l’alpinismo invernale è tutta un’altra storia, le possibilità di riuscita non vanno oltre il 10/15 percento. «Capite che uno non dice di certo “Vado d’inverno così divento famoso”».

Il terzo tentativo sul Nanga. Simone ha spesso lavorato con alpinisti dell’est Europa perché vuole persone stoiche e resistenti, magari meno tecniche ma anche meno “viziate”. Sono stati i polacchi a inventare l’alpinismo invernale, pur avendo montagne non più alte di 2400 metri. «Per tentare ancora una volta il mio quarto 8.000 invernale ho scelto allora Tamara Lunger, un’altoatesina decisamente tosta e sempre sorridente: per fare alpinismo invernale bisogna essere persone positive, come i nostri padri e nonni che non si lamentavano mai. E Tamara è quel tipo di persona; ha fatto il K2 senza ossigeno, ha vinto gare massacranti, non si lagna mai». Ma la fase iniziale al Nanga Parbat non è foriera di soddisfazioni per i due: «Volevamo aprire una nuova via, che viene chiamata Via Messner. Ma nel primo mese e mezzo non siamo riusciti ad andare oltre al campo 1 (5.800 mt), per cui abbiamo deciso di lasciare la Via Messner e provare quella normale».

 

 

Una nuova squadra. Tornati al campo base, Simone e Tamara scoprono che delle sei spedizioni, ne sono rimaste soltanto due, la loro e quella del basco Alex Txicon e dal pakistano Ali Sadpara. «Alex e Ali ci propongono di salire insieme; loro avevano già attrezzato la via fino ai 6.700 metri. Anche se gli acclimatamenti sono diversi, accettiamo la proposta. Arriviamo al campo 2, a 6.100, ma poi per ben 26 giorni fa brutto. Fino a quando il mio metereologo di fiducia non mi avvisa che ci sarà una finestra di bel tempo, addirittura di 4 o 5 giorni». Era il 22 febbraio, la squadra decide allora di tentare la vetta, cosa mai fatta con così poco acclimatamento, o comunque di arrivare più in alto possibile. Salgono lungo la via Kinshofer, molto ripida e in ombra. «Nel primo giorno, dopo 10 ore di scalata, arriviamo alla tenda posta a 6.100, ma scopriamo che due materassini sono stati strappati via dal vento. Ci toccherà dormire scomodi, in quattro su due materassi, per tutta la durata della spedizione. Il secondo giorno lo passiamo tutto in tenda per il vento. Al terzo arriviamo ai 6.750 metri, al campo 3. Nella giornata successiva tocchiamo i 7.150, una delle quote più alte mai raggiunte sul Nanga Parbat invernale».

 

 

La strategia e la fortuna. Siamo al 26 febbraio 2016: Simone decide di partire alle 6 di mattina e non prima, perché essendo a ovest il sole sorge solo alle 10 e passare troppe ore al buio sarebbe stato fatale. Simone sapeva che quello sarebbe stato il loro ultimo giorno a disposizione prima del ritorno del brutto tempo; le ore erano quindi risicate, dal momento che non potevano sforare oltre le 15.30, per non dover affrontare una discesa in notturna. «Io ero senza suole riscaldate, per non lasciare spazio a polemiche di nessun tipo; camminavo quindi più speditamente degli altri, per scaldarmi i piedi. Coprivamo circa 100 metri di dislivello ogni ora, eravamo molto lenti e rischiavamo quindi di non arrivare entro l’orario stabilito». La temperatura segnava meno 58 gradi, l’ossigeno era un quarto di quello normale: «In quelle condizioni le capacità fisiche sono ridotte del 90/92 percento. Arrivati a 8.010 metri Tamara mi dice che se arriva poi dovranno aiutarla a scendere: non un buon segnale. Verso la fine della salita, il Nanga si spiana e quindi perdo il contatto visivo con Tamara. Arrivo in cima alle 15.37, scatto le foto di rito con Alex e Ali, ma vedo che Tamara non arriva». Simone poteva solo immaginarlo; Tamara a 8.060 decide di fermarsi, perché altrimenti non sarebbe più tornata. Nella discesa, inciampa e scivola rovinosamente per 200 metri, fermandosi nell’unica chiazza di neve fresca. Ma sarà proprio questa sfortuna a salvare Simone e i due compagni: «Nella discesa siamo più lenti del previsto, facciamo 25/30 passi al minuto. Io seguo con lo sguardo la tenda in lontananza, ma quando cala il buio pesto non posso far altro che accendere la torcia e andare avanti a tentoni. Ma dopo pochi minuti Tamara accende la luce della tenda e ci permette di avere un punto di riferimento». La decisione di arrendersi a pochi metri dalla vetta e anche la pericolosa caduta della donna sono state la salvezza di Simone e compagni: «Quella vetta l’abbiamo raggiunta in quattro alpinisti e non in tre». Insomma, quel ragazzo che andava su e giù per la falesia di Cornalba ne ha fatta di strada.

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