Non confondiamo burka e burkini

Questa estate del 2016 rischia di passare agli annali come l’estate del burkini. Perché nell’Europa spaventa dal terrorismo anche un innocente costume, simile a quello che portavano le nostre nonne (le poche nonne che potevano permettersi di andare al mare...), diventa un casus belli. La responsabilità è di un manipolo di sindaci francesi, con in testa David Lisnard, primo cittadino di Cannes, che hanno emanato decreti per vietare sulle loro spiagge l’uso del costume integrale per le donne di fede musulmana. Il burkini era stato inventato anni fa da una stilista australiana di madre libanese, Aheda Zanetti. Lo aveva disegnato non per sé ma per un’azienda di costumi che aveva fiutato la possibilità di conquistare un nuovo mercato. Che il burkini non abbia mai rappresentato per nessuno in Occidente un particolare problema lo testimonia il fatto che in tempi brevi tante altre grandi aziende sono scese in campo proponendolo in catalogo. Compresa l’azienda più importante, oltre che più trendy: la tedesca Arena (il cui marchio spiccava sui costumi di tanti grandi campioni delle piscine, Pellegrini in testa).
La motivazione dell’ordinanza di divieto è francamente molto debole: il burkini, si scrive, «è un abbigliamento da spiaggia che manifesta ostinatamente la propria appartenenze religiosa» e per questo potrebbe accendere tensioni (su una spiaggia corsa era scoppiata una rissa perché alcuni locali insistevano nel voler fare una fotografia ad una ragazza in costume integrale).
Il nome “burkini”, coniato proprio da Aheda Zanetti, è una contrazione anche spiritosa tra due abbigliamenti che più opposti non si può, il burka e il bikini. Ma com’è evidentissimo che non c’entri nulla con il bikini, se non per il fatto che viene indossato in spiaggia, è altrettanto evidente che non ha nulla a che vedere con il burka, perché privo dell’elemento essenziale: il velo che copre il volto.




La Francia sin dal 2004 ha vietato l’uso del burka in ambiti pubblici; venerdì anche la Merkel si è detta favorevole, in modo sfumato, a un regolamento di questo tipo. Ma il divieto del burka non è dovuto al fatto di «manifestare ostinatamente la propria appartenenza religiosa», bensì da ragioni legittime di sicurezza. Il problema del burka non è ciò che manifesta, bensì, al contrario, ciò che nasconde: il volto di chi lo porta, che quindi potrebbe sfuggire ad esempio a tutti i sistemi di videosorveglianza.
Il burkini è tutt’altra cosa. Manifesta certamente un’appartenenza religiosa, né più né meno di come la manifesta la tonaca di una suora o di un prete, o il mantello di un monaco tibetano: ed evidentemente nessuno si sogna di proibire queste pubbliche manifestazioni di fede espresse attraverso l’abbigliamento. Per questo il principio espresso nell’ordinanza del sindaco di Cannes è un principio un po’ giacobino e vagamente inquietante...




Oltretutto il divieto si traduce anche in violazione di un principio di libertà della donna, proprio su quelle spiagge che esattamente 70 anni fa (era il luglio 1946) vedevano apparire i primi “scandalosi” bikini. In questo modo Cannes che allora era un’avanguardia della liberazione femminile, oggi rischia di rivelarsi invece una retroguardia. Perché proibire i burkini significa di fatto proibire alle donne di fede musulmana di godersi il mare, rispettando i principi della propria fede.
Nota finale: il burkini è oggettivamente un costume di grande eleganza. Non a caso attira tanto la fantasia degli stilisti. Proibirlo proprio a Cannes, città bandiera dell'eleganza, è un doppio contro senso.