I motivi per cui Massimo Bossetti è stato condannato all'ergastolo
A distanza di quasi tre mesi dalla sentenza di primo grado che ha condannato Massimo Bossetti all'ergastolo per l'omicidio di Yara Gambirasio, la Corte d'Assise ha depositato mercoledì 28 settembre le motivazioni. 153 pagine fitte di parole nelle quali il muratore di Mapello viene definito un uomo dall'«animo malvagio», spinto al terribile omicidio dal «contesto di avance a sfondo sessuale verosimilmente respinte dalla ragazza, in grado di scatenare nell’imputato una reazione di violenza e sadismo di cui non aveva mai dato prova fino ad allora».
Il Dna è «indubbiamente» di Bossetti. A risultare chiaro dalle motivazioni depositate ieri dalla Corte presieduta dal giudice Antonella Bertoja, è che il castello accusatorio costruito dal pm Letizia Ruggeri è stato ritenuto solido. In particolare l'elemento cardine di tutte le indagini, ovvero il frammento di Dna riconducibile a Bossetti che è stato rinvenuto sul corpo senza vita della 13enne di Brembate Sopra. Nei documenti firmati anche dal giudice estensore Ilaria Sanesi, si legge: «L’attribuzione del profilo di Ignoto 1 a Bossetti è in termini di certezza e il rinvenimento sugli slip in prossimità di una delle lesioni da taglio, prova che l’imputato non solo è entrato in contatto con la vittima, ma è l’autore dell’omicidio». E i dubbi sollevati dalla difesa dell'imputato relativi al Dna mitocondriale, che a differenza di quello nucleare non combaciava perfettamente con il profilo genetico di Bossetti? Irrilevanti per la Corte, che ha spiegato come il mancato rintraccio del Dna mitocondriale «non è in grado di porre in dubbio la certezza dell’identificazione», dato che essendoci il nucleare, «la ricerca del mitocondriale è inutile». Esclusa anche l'ipotesi delle possibili contaminazioni, la Corte definisce come «assolutamente affidabile» il risultato delle analisi. E aggiunge anche che quel Dna rinvenuto sulla vittima «non ha nessuna spiegazione, se non quella del suo (di Bossetti, ndr) coinvolgimento nell’omicidio».
La concomitanza degli altri indizi. Ma non c'è solo il profilo genetico a incastrare il muratore di Mapello. Secondo la sentenza, infatti, non si possono dimenticare i numerosi indizi che la Procura ha portato a supporto della propria accusa. I tabulati telefonici ad esempio, che sebbene non indichino esattamente la presenza di Bossetti nei pressi della palestra da cui è sparita Yara la sera del 26 novembre 2010, allo stesso tempo escludono che fosse altrove. Ma anche la calce, le microsfere di metallo e le fibre rivenute sul corpo di Yara e riconducibili alla quotidianità di Bossetti (il suo lavoro nei cantieri e il suo furgoncino), che sebbene, come ammette la stessa Corte, siano «elementi privi di capacità individualizzante, convergono in un’unica direzione e corroborano il dato probatorio del Dna». Ma soprattutto ci sono le tante divergenze nei racconti di Bossetti: il carpentiere di Mapello, infatti, ha sempre dichiarato di non ricordare cosa avesse fatto la sera del 26 novembre 2010, ma allo stesso tempo ricordava perfettamente di avere il cellulare scarico, che pioveva, che il terreno di Chignolo era fangoso e che aveva incontrato una persona e l’aveva salutata con un colpo di clacson. Com'è possibile?
L'aiuto involontario di Marita Comi. In tal senso, i giudici hanno ritenuto fondamentale l'apporto involontario fornito loro dalla moglie di Bossetti, Marita Comi. In diversi incontri in carcere, infatti, la donna ha legittimamente interrogato il marito nella speranza di fare luce lei stessa sui fatti, fornendo così ai giudici delle discussioni dal contenuto «estremamente significativo», scrive nelle motivazioni la Corte d'Assise. In particolare, durante un incontro, la Comi dice al marito: «Ci ho pensato, Massi, eri via quella sera, non mi ricordo a che ora sei venuto né che cosa hai fatto. Perché all’inizio eravamo arrabbiati e quindi non te l’ho chiesto. È uscita dopo la storia della scomparsa e non mi hai detto cosa hai fatto». Nonostante le risposte vaghe che Bossetti ha sempre fornito, anche alla moglie, circa quella sera, alla fine Marita s'è convinta dell'innocenza del compagno. Lo stesso non vale invece per la Corte, che anzi, proprio da quei colloqui ha tratto delle conclusioni diametralmente opposte.
«È stato un omicidio a sfondo sessuale». Le motivazioni si chiudono poi con la spiegazione del perché i giudici hanno ritenuto valide le aggravanti delle sevizie e della crudeltà che, in termini legali, sono poi costate l’ergastolo a Bossetti. La Corte definisce l'assassinio di Yara un «omicidio di inaudita gravità, maturato in un contesto di avance a sfondo sessuale, verosimilmente respinte dalla ragazza, in grado di scatenare nell’imputato una reazione di violenza e sadismo di cui non aveva mai dato prova fino ad allora». Circa il movente, invece, i giudici osservano che «Yara aveva il reggiseno slacciato e gli slip tagliati e sul computer dell’imputato sono state trovate tracce di ricerche a carattere latamente pedopornografico». I giudici, quindi, sono andati anche oltre il pm, che nella sua arringa non si era mai spinta a indicare esplicitamente l'omicidio della ragazzina come un omicidio a sfondo sessuale.
La difesa: «La sentenza fa acqua dappertutto». Naturalmente le motivazioni depositate dalla Corte non soddisfano i legali di Bossetti, Claudio Salvagni e Paolo Camporini, che nell'anno di processo hanno dato filo da torcere alla Procura con le loro perizie e arringhe. «Questa sentenza non è altro che la riproposizione tale e quale della requisitoria del pm» dichiara a L'Eco di Bergamo Salvagni. L'avvocato, come già aveva detto dopo la sentenza, presenterà certamente ricorso in Appello, a maggior ragione dopo aver letto le motivazioni: «Non c’è alcuna disamina critica, non si è preferita una tesi smontando l’altra, si è preferita una tesi e basta. Abbiamo sollevato dubbi a cui non è stata data risposta. Gli unici passaggi in cui la Corte non è caduta nel tranello riguardano la testimonianza di Alma Azzolin e i filmati delle telecamere che ritraevano un autocarro simile a quello dell’imputato (entrambi elementi ritenuti dai giudici di non rilievo, ndr). Il resto è un acritico appiattimento sulle tesi accusatorie». A parere di Salvagni, i giudici «si sono spinti ad affermare che il movente del delitto sarebbe di natura sessuale, quando non può che essere considerata solo un’ipotesi come tante altre. Vero che il movente, di fronte a un quadro probatorio chiaro, può anche non essere preso in considerazione, ma qui abbiamo un Dna dubbio e una serie di indizi privi di pregio. Questa sentenza fa acqua dappertutto».
Nessuna calunnia. Salvagni non dovrà invece preoccuparsi dell'accusa di calunnia che era stata mossa verso il suo assistito dall'ex collega Massimo Maggioni, su cui Bossetti aveva tentato di dirottare le indagini della Procura. A parere della Corte, infatti, le ipotesi dell'imputato erano talmente campate per aria che gli sono valse l’assoluzione «perché il fatto non sussiste» dal reato di calunnia. Nelle motivazioni i giudici spiegano che «la manifesta inverosimiglianza delle allegazioni accusatorie nei confronti di Maggioni escludeva anche in astratto la possibilità di inizio di un procedimento penale a carico di quest’ultimo che, infatti, mai è stato indagato». A processo, Bossetti aveva descritto il collega di lavoro «come soggetto sessualmente interessato a ragazzine in età scolare e così invidioso della sua situazione familiare e pieno di rancore per il fatto che l’imputato, in caso di contrasto fra Maggioni e il socio Osvaldo Mazzoleni (marito della sorella di Bossetti, ndr), si schierava a fianco del cognato, da essere capace di uccidere Yara e contaminarla con il Dna di Bossetti, onde far ricadere su di lui la responsabilità dell’omicidio».