Sarajevo, la biblioteca ricostruita Simbolo di un popolo libero
La facciata della Biblioteca di Sarajevo è da poco tornata al suo antico splendore. E la targa in marmo bianco che si intravede dietro la presenza un po’ burbera del militare bosniaco, non potrebbe essere più esplicita: «Qui i criminali serbi, nella notte tra il 25 e il 26 agosto del 1992 diedero fuoco alla Biblioteca nazionale e universitaria della Bosnia Erzegovina. Più di due milioni di libri, periodici e documenti sono scomparsi tra le fiamme».
L’assedio. Nella prima metà del 1991 Slovenia e Croazia, le arterie più ricche della Jugoslavia, riescono ad ottenere l’indipendenza, facendo il loro ingresso nell’orbita occidentale. Quando la multietnica Bosnia imbocca la stessa strada verso l’indipendenza, però, il presidente della Serbia Slobodan Milosevic afferma, sotto i riflettori internazionali, che «dove c’è una tomba serba, là è la Serbia. E ce la prenderemo». È il grimaldello per muovere guerra contro la Bosnia che, con la sua composizione multietnica, di tombe serbe sotto il suo suolo ne custodisce a migliaia. Così, il 5 aprile del 1992 i colpi dei cecchini diretti alla folla che festeggia incredula l’indipendenza, danno inizio all’assedio più lungo della storia (più lungo perfino dell’assedio di Leningrado). Finirà solo tre anni dopo, al prezzo di diecimila vite umane, tra cui quelle di duemila bambini.
La rinascita della Biblioteca. La Biblioteca di Sarajevo, la cui facciata si specchia sul fiume Milijacka, è stata silenzioso testimone di un secolo di rivolgimenti: dall’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando (28 giugno 1914) avvenuto a pochi passi dall’edificio, alle difficoltà e alle tensioni tra le due guerre mondiali, fino agli effimeri sogni di integrazione europea che si concretizzarono nella scelta della città come sede delle olimpiadi invernali del 1984. Poi, nel 1992, l’inizio dell’assedio e l’incendio della notte tra il 25 e il 26 agosto, con cui andò perduto il 70 percento del patrimonio librario. E seicento anni di storia di un Paese in bilico tra l’impero austro-ungarico e quello ottomano.
Costruito tra il 1892 e il 1896, secondo il progetto di Alek Sandar Witek prima e di Ciril Ivekovic poi, l’edificio rappresenta un grande esempio di stile neo-moresco: modello architettonico meticcio e di ispirazione romantica che rimanda ad alcune costruzioni del Maghreb, ma anche della Spagna andalusa. Tra la facciata e l’interno (caratterizzato da sontuose decorazioni di gusto e di ispirazione islamici), il lavoro di ristrutturazione ha richiesto più di vent’anni e soltanto nell’aprile scorso l’edificio è stato finalmente riaperto al pubblico. Il progetto di restauro è stato scandito in quattro fasi ed è stato possibile anche grazie ai corposi aiuti finanziari messi a disposizione dai governi turco, americano e svedese.