Dodici indimenticabili "10" Prima foto dell'album: Rivera
Provate a chiederlo a un bambino oggi che i calciatori sulla maglietta hanno il venti o il novantanove, e non si dice più il terzino o lo stopper per dire cosa devono fare, lui vi dirà lo stesso che il dieci è il numero magico e non è uguale a tutti gli altri che scendono in campo. Ha un fascino diverso perché l'hanno indossato i più bravi, e questo lo sappiamo tutti. Ma è molto più importante di così. Passano le generazioni, i tempi cambiano, e anche il calcio. Lo fa insieme alla società, al costume, al sentimento. Alla vita. Qualche volta ne è lo specchio, ma più spesso ci dice dove stiamo andando e chi siamo (o siamo stati) veramente. Quando Maradona segnò all'Inghilterra quello che poi è passato alla storia come il gol del secolo, capimmo che cosa era la fantasia. È dietro questa evoluzione della specie che sopravvive la leggenda dei numeri dieci. Uomini prigionieri di una libertà creativa troppo grande per essere di tutti.
GIANNI RIVERA
Quando è nato Gianni Rivera c'era la guerra e nessuno riusciva più a pensare alle cose felici. Poi per fortuna è finita, ma quel giorno Teresio stava scappando dalle bombe che cadevano dal cielo, e ovviamente lo stava facendo assieme a Edera, che aveva il pancione e non riusciva a correre bene. Era un giorno d'agosto, e come sempre succede quando nasce una stella è un giorno destinato a cambiare molte cose. Invece la prima volta che Gianni Brera lo vide giocare, Giovannino aveva la maglia numero nove ed era un ragazzino con "il carrello un po' basso, le cosce ipertrofiche, il petto miserello". Fortuna che i figli della guerra hanno sempre qualcosa in più. E più degli altri Rivera aveva quella capacità di ispirazione progressiva, che in pratica era come se il pensiero e il movimento fossero una cosa soltanto, molto fluida e naturale, che gli faceva vedere una giocata prima degli altri, e dopo più nessuno si è sorpreso se gli hanno dato la numero dieci.
Di Rivera l'Italia non si innamorò mai veramente. Si era abituati alle cose ruvide, mentre lui aveva un portamento aristocratico, la fronte alta, l’espressione sicura. Toccava il pallone con una carezza. Adesso che ha più di settant’anni e ha fatto politica, ha imparato ancora meglio a sfumare le cose. Ma prima, quando giocava, non diceva per forza sì, o sissignore. Infatti litigava coi giornalisti e pure con gli arbitri. A tenere in piedi il Paese dagli orrori delle bombe c’erano già stati Bartali e Coppi. Negli anni Sessanta molti avevano bisogno di qualcos’altro. Del resto all’epoca erano tutti figli di ferrovieri come Teresio, o di panettieri, o di falegnami. Ognuno era cresciuto coi sacrifici e tutti giocavano per strada, quando andava bene negli oratori. Come aveva fatto Gianni dai salesiani. Solo che poi era arrivato il benessere, l’industria era diventata un business, e potevi comprarti l’automobile e la lavatrice e gli altri elettrodomestici, se volevi. Bastava lavorare. Da tutto il mondo venivano a provare il cibo italiano, la pasta e la pizza e il gelato, che dalle altre parti non c’erano, e venivano a vestire l’eleganza che i nostri sarti cucivano nelle botteghe. Era in quel contesto di pura eccellenza che giocava Rivera. Un esteta, ma di quelli artigianali, che curano le cose belle punto per punto, minuziosamente, venuto su in fretta perché il tempo di aspettare un’altra occasione non c’era più. Tant’è che è stato il primo italiano a vincere il Pallone d’Oro.
Dieci anni fa gli hanno chiesto se sia stato più un candido o un furbacchione. Disse: «A volte ingenuo, opportunista mai. Se lo fossi stato, avrei ottenuto sicuramente di più nella vita, ma avrei perso me stesso». È stato Abatino per qualcuno, per tutti gli altri l’uomo della Provvidenza. A rivederlo oggi Rivera è stato uno del futuro. Preferiva giocare all’attacco in un momento in cui l’Italia del calcio si attardava ancora col catenaccio. Così facendo, senza mai rinnegarsi, ha vinto gli scudetti e le Coppa delle Coppe, e anche la Coppa dei Campioni per due volte. Ha giocato una vita nel Milan, e lo ha fatto da capitano, più spesso da uomo. Molti gol ha segnato in carriera, forse persino troppi per quel suo ruolo aggraziato e comunque di lusso. Il più prezioso lo ha fatto in nazionale. È il 1970, si gioca in Messico, allo stadio Azteca. L’Italia contro la Germania. L’avversario di tutta una Storia, solo che quel giorno non lo sapevamo ancora. Hanno già fatto sei gol, tre per parte, rinnegato tutte le tattiche e speso tutte le energie perché sono andati ai supplementari. A un certo punto Boninsegna parte sulla fascia sinistra, e quando partiva così non lo fermavi più. Infatti un uomo lo salta di lato, e poi butta la palla in mezzo, che sfiora l’erba. È lì, in quel punto dell’area di rigore dove c’è Gianni, che si è riversata tutta l’antropologia del popolo italiano. Rivera colpisce il pallone di piatto. Sì, di piatto, il gesto meno nobile di tutto il suo repertorio. Ma è un guizzo, un lampo, un colpo. Di fortuna. Di classe. Genio. Che per molto tempo ci ha fatto credere di essere i più bravi. Magari non era vero. Ma oggi, ripensandoci, ci rende ancora felici.