Lo spiega Scott Adams

Sì, ma perché Trump ha vinto? Un'analisi da un'altra prospettiva

Sì, ma perché Trump ha vinto? Un'analisi da un'altra prospettiva
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Scott Adams è un fumettista americano (è il creatore di Dilbert, che compare su circa 2500 quotidiani di tutto il mondo) e più di un anno fa ha predetto la vittoria elettorale di Donald Trump. Più di recente ha affermato che Trump non sta solo cambiando radicalmente lo scenario politico occidentale, ma che sta mutando il nostro modo di percepire la realtà. Adams non si è mai fidato troppo di dati e statistiche. Secondo lui, la logica dei sondaggi parte da un assunto sbagliato: gli esseri umani prendono le loro decisioni in modo razionale. Decenni di ricerca in psicologia del giudizio, economia comportamentale e decision making hanno ampiamente dimostrato il contrario (Daniel Kahneman, psicologo israeliano, ha vinto il premio Nobel nel 2002 per aver verificato l’esistenza di alcuni cognitive bias, cioè scorciatoie di pensiero, che ci inducono all’errore molto più spesso di quanto pensiamo). Secondo Adams, per capire il fenomeno Trump non bisogna focalizzarsi su argomenti razionali. Bisogna concentrarsi sugli aspetti più irrazionali dell’essere umano, aspetti che Trump ha saputo persuadere con grande maestria.

La capacità di reframing. Adams ha definito Trump un “master persuader”, cioè un gran maestro della persuasione. La sua è una teoria affascinante, sorretta da numerosi esempi. Eccone uno: in uno dei primi dibattiti delle primarie del partito repubblicano, nell’Agosto 2015, la giornalista di Fox News Megyn Kelly ha sferrato a Trump un attacco violento: «Hai chiamato le donne che non ti piacciono ‘maiali grassi’, ‘cani’, ‘sciattone’, e ‘animali disgustosi’...». Kelly sta per finire la domanda, ma Trump la interrompe e con un mezzo sorriso stampato in faccia risponde: «[Ho chiamato così, ndt] Solo Rosie O’Donnell». Rosie O’Donnell è una personalità televisiva di sinistra abbastanza odiata dalla base del partito repubblicano. Appena Trump pronuncia quella risposta, l’energia nella stanza si trasforma: quasi tutti scoppiano in una fragorosa risata, e la stessa Kelly si lascia scappare un mezzo sorriso. Trump si libera da una situazione impossibile creando un nuova cornice in cui la domanda che Kelly gli stava ponendo non ha più alcuna rilevanza. Pensata in questi termini la scena è impressionante e, secondo Adams, architettata alla perfezione dalla mente del presidente eletto.

 

 

Tump ha usato questa strategia, chiamata reframing, durante tutto il corso della sua campagna elettorale. Reframing viene tradotto con “riformulazione”, ma la parola inglese coglie molto meglio le sfumature del meccanismo. La parola “frame” significa cornice, e viene spesso utilizzata in campo accademico per parlare di “cornici concettuali”, cioè teorie. Il reframing è la riformulazione di una cornice, uno dei meccanismi di base della psicologia clinica, in cui il terapeuta cerca di modificare lo schema di base tramite cui un paziente interpreta il mondo. I discorsi di Trump sono stati per la maggior parte incoerenti e confusionari, e la stampa liberale ne denunciava la mancanza di preparazione. Ma a Trump non interessava minimamente la coerenza. Quello che voleva era trasmettere un messaggio che connettesse le persone da un punto di vista emotivo e perlopiù inconscio, una strategia ampiamente utilizzata nel marketing, e iniziata a diffondersi negli Stati Uniti all’inizio del secolo scorso tramite l’influente lavoro di Edward Bernays, nipote di Sigmund Freud e pioniere nel campo della persuasione di massa.

 

 

Ecco un altro esempio: durante il secondo dibattito televisivo con Hillary Clinton dello scorso ottobre, a Trump viene chiesto di commentare la famosa registrazione dove afferma di aver commesso molestie sessuali. Trump dice bruscamente al moderatore che quelle erano solo chiacchiere da spogliatoio, e inizia subito a parlare del pericolo dell’ISIS, e del fatto che i loro militanti tengono le persone chiuse in delle gabbie. Il discorso sembra illogico e sconclusionato. Tuttavia, Adams fa notare come dietro ci sia della pura ingegneria: Trump sta creando una nuova cornice in cui ai media e alla Clinton interessano le sue “parole da spogliatoio”, mentre a lui interessa la vita delle persone. La strategia è quella di fare leva sulla paura, su un sentimento profondo e irrazionale che spesso influenza il nostro comportamento molto più di qualsiasi decisione ponderata. Il fatto di parlare di persone tenute in gabbia non è casuale: il linguaggio apparentemente semplice di Trump evoca immagini immediate nella mente di un ascoltatore, immagini che s’insidiano nel profondo di noi molto più di qualsiasi argomento logico.

 

 

I colpi mortali linguistici. Un’altra abilità che contraddistingue Trump è quella di sapersi inventare quelli che Adams definisce “linguistic killshots”, cioè dei colpi mortali linguistici. Adams si riferisce ai soprannomi che Trump ha affibiato ai suoi avversari durante la campagna. La percezione che il pubblico aveva di Jeb Bush (candidato alle primarie tra i repubblicani) prima che Trump iniziasse ad attaccarlo era quella di una persona calma e tecnocratica, di cui in sostanza ti saresti fidato nel caso di un’emergenza nucleare. Poi Trump gli ha affibiato l’etichetta di “low-energy guy”, cioè ragazzo con poca energia. Ha funzionato alla perfezione: da quel momento, il fratello di George W. è stato percepito da tutti come una persona sicuramente affidabile, ma di base un po’ moscia. Adams è stato il primo in America a capire che da quel momento, cioè da quando Trump ha appiccicato a Bush quell’etichetta, Jeb non avrebbe più avuto la minima speranza. Trump ha usato lo stesso meccanismo con Ted Cruz (“Liar Ted”, cioè Ted il Bugiardo) e Marco Rubio (“Little Marco”, il Piccolo Marco), gli altri due candidati di punta tra i repubblicani.

 

 

Alla Clinton è toccato il noto “Crooked Hillary”. L’ingegneria dietro al soprannome è affascinante: “crooked” in inglese significa corrotto, ma anche fisicamente decadente. Il soprannome tocca i due aspetti più vulnerabili della Clinton. Da un lato le sue condizioni di salute, ritenute non ottimali (quest’anno, per esempio, ad una commemorazione per le vittime dell’11 settembre Hillary ha avuto un malore causatole da una polmonite); dall’altro la presunta corruzione politica della candidata democratica. Secondo Adams, i soprannomi di Trump hanno sempre questa doppia caratteristica: da un lato parlano della fisicità della persona, e dall’altro del loro presunto modo di operare nel mondo. In questo modo, i linguistic killshots diventano etichette che rinforzano continuamente il preconcetto che abbiamo sui candidati a cui sono affibiati, qualsiasi cosa essi facciano (in psicologia il meccanismo si chiama “confirmation bias”). Alla prima mossa politicamente ambigua della Clinton, la nostra mente tornerà all’etichetta linguistica di Trump: Hillary la Corrotta. E il meccanismo si autoriforza in continuazione.

 

 

Leva sull'irrazionalità. La teoria di Adams è decisamente interessante, specialmente se si pensa che quando il disegnatore ha predetto la vittoria di Trump il resto del Paese rideva sotto i baffi del tycoon neyorchese, considerando la sua candidature come uno scherzo o poco più. Secondo la teoria di Adadms, per vincere Trump ha fatto leva sull’irrazionalità delle persone, e ne ha plasmato l’inconscio con un linguaggio e una gestualità architettati alla perfezione. Quasi nessuno tra intellettuali e giornalisti lo aveva capito e visto arrivare. È in questo senso che Adams afferma che Trump cambierà per sempre il nostro modo di vedere la realtà. Se decidiamo di non includere nell’equazione l’aspetto più irrazionale e nascosto della nostra umanità, allora non stiamo considerando un pezzo fondamentale del puzzle. Vista in quest’ottica, la campagna elettorale di Trump ha messo a nudo alcuni dei meccanismi che il potere economico utilizza per persuadere le persone, essenzialmente dicendoci: fidatevi della vostra logica, mentre noi operiamo per soddisfare i vostri desideri inconsci. Desideri inconsci che finiamo per associare ad una macchina nuova e una sigaretta.

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