Giovanna, il primario dei neonati che protegge la vita, senza mollare

Nata a Pontida, è madre di due figlie. Dopo la maturità classica si è laureata con lode in Medicina e Chirurgia nel 1980 a Pavia. Ha poi conseguito specializzazioni in pediatria, allergologia e neonatologia. Ha cominciato a lavorare in una clinica pediatrica a Brescia col professor Ugazio. Dopo la nascita della prima figlia, ha collaborato come volontaria con il reparto di patologia neonatale degli Ospedali Riuniti di Bergamo, guidato dal professor Colombo. Nel 1990 è stata assunta. Attualmente è direttore della struttura complessa di Patologia Neonatale e Terapia intensiva Neonatale del Papa Giovanni. Autrice di settanta pubblicazioni scientifiche, dal 2003 è docente di Neonatologia al Corso di laurea per Ostetrica dell’Università Bicocca di Milano. Di sé dice: «Ho avuto la fortuna di vivere a Bergamo, accanto all’ospedale e ho sempre fatto quello che mi piaceva fare. Con il professor Colombo sono sempre andata d'accordo, anche perché venivamo dalla stessa scuola. E poi ho fatto anche carriera, che è venuta da sé. In realtà il mio obiettivo è sempre stato fare un lavoro che mi desse soddisfazione, come è stato, per cui sono felice».
«Non esiste nulla di più bello dei bambini. Lo dico sempre. Peccato che diventano adulti. Perché la spontaneità e la ricchezza dei bambini è la cosa più affascinante del mondo. Si rovinano per colpa degli adulti, mai per colpa loro».
Dottoressa, lei ha a che fare tutti i giorni con bambini che soffrono. Vale la pena avere dei figli?
«Sììì, sìii. Guardi, io incoraggio sempre i genitori. Una coppia aveva avuto un figlio, era nato senza problemi, ma dopo venti giorni è stato ricoverato perché non mangiava. Abbiamo scoperto che aveva una grave malattia genetica, per cui dopo quattro mesi è morto. I genitori non volevano più saperne, la mamma in particolare. Lei aveva già un figlio da un precedente matrimonio. Il padre piangeva disperato. Io allora ho insistito affinché tentassero di nuovo, perché capivo che quello era il loro desiderio. “Certo - ho detto loro - che rischiate di avere un altro figlio con gli stessi problemi, ma potete fare la diagnosi prenatale: perché rinunciare a questa gioia?”. Alla fine hanno avuto un altro bambino. Ha compiuto un anno e sono venuti a farmi gli auguri a Natale: è bello e senza problemi. Ora sono felicissimi».
Lei ama il rischio.
«La mia soddisfazione nel lavoro è vedere i genitori andare a casa contenti».
Ed è nota per non mollare mai.
«Sì, è vero. Non mollo mai. Ma ho avuto delle soddisfazioni enormi».
Ci racconti le più belle.
«Quella di bimbo con un’ernia diaframmatica, diagnosticata in utero. A quei tempi si andava in Belgio a fare un intervento in utero per cercare di favorire lo sviluppo del polmone, però l’operazione non aveva portato nessun beneficio. Il bimbo nacque da noi un po’ prematuro con complicanze di tutti i tipi, peggiorava sempre di più. Gli anestesisti guardavano le tac e scuotevano la testa: “Non ce la farà mai”. Andai dal dottor Locatelli - un altro che non mollava mai - e gli dissi: “È vero che non ce la farà, però togliamo questa aria”. Locatelli fece un drenaggio, poi un altro e un altro ancora. Un sabato notte mi chiamò il medico di guardia: “Giovanna, sta morendo”. Corsi in ospedale e chiamai i genitori: “Guardate che purtroppo...”. Nel frattempo feci un’altra radiografia, aveva un pneumotorace, lo bucai d’urgenza e il bambino si rianimò. All'uscita dall’ospedale incontrai i genitori: “Scusate se vi ho chiamato di notte, ma si è ripreso”. Guardi, ho qui la foto: ha cinque anni ed è bellissimo. Un altro caso è quello di una neonata che veniva dalla Mangiagalli per un possibile trapianto di fegato. Sembrava non farcela e a un certo punto è andata in coma, poi si è ripresa. Era nata a gennaio e a giugno è stata sottoposta al trapianto. Prima dell’operazione i genitori hanno voluto battezzarla e mi hanno chiesto di farle da madrina. Oggi quella bambina frequenta le medie».
E la delusione più grande qual è stata?
«Ogni volta che sei costretto a mollare perché non c’è più niente da fare. Ho perso tante battaglie, ci sono casi in cui devi per forza arrenderti. Il più angosciante è stato quello di un bimbo nato a termine, con un cesareo, che faticava a respirare. Non siamo riusciti a intubarlo. Veder morire un bambino che apparentemente non aveva bisogno di niente, è stato terribile. Poi abbiamo scoperto che aveva una malformazione».
Secondo lei perché oggi si fanno meno figli?
«Da una parte perché c’è una crisi della famiglia, dall’altra perché questo lungo periodo di incertezza toglie la speranza nel futuro».
E i giovani non si buttano più...
«Io li capisco. In una società così dove non ci sono prospettive e il domani è un'incognita, i giovani sono spaventati. Già sposarsi è complicato, pensare poi di mettere al mondo un figlio con questa precarietà è un freno importante. Quando ero giovane io, vedevamo il futuro come una bella possibilità, c'era ottimismo. Adesso i giovani hanno paura, tutto viene descritto così nero, tenebroso... Con questa crisi che imperversa e in questo mondo in cui tutto è precario, come fa uno ad avere fiducia? Lo vedo anche con le mie figlie, con i loro amici. Il posto fisso è un miraggio e anche quando è fisso non è mai sicuro. Se non c'è chi dà loro una mano, capisco che è una grossa preoccupazione anche mettere al mondo dei figli. Il nostro era un mondo diverso, c'era un'altra atmosfera».
In Francia c'è stata una politica a favore della famiglia e la popolazione è cresciuta.
«Appunto, bisognerebbe dare qualche aiuto concreto. L'idea del fertility day non è stata un gran trovata».
I figli si hanno anche sempre più tardi. È un bene o un male?
«È un male. Troppo giovani non va bene, ma non si può arrivare a quarant’anni ad avere il primo figlio. Può succedere, ma una donna per non correre rischi e non far correre rischi al bambino dovrebbe partorire intorno ai trent’anni. Certo, è aumentata l’età, ma dopo i quarant’anni avanzati non è un bene. Primo perché la fertilità cala, secondo perché aumenta il rischio di patologie, terzo perché si riduce il numero dei figli: se incominci a quell’età è difficile averne più di uno. E adesso c’è questo voler tutto a tutti i costi. Io rispetto il desiderio di maternità, ma alcune volte diventa un’esasperazione».
Ha in mente una mamma che l’ha colpita in questi anni?
«Ce ne sono tante. Una in particolare ha avuto il bambino, nato prematuro, ricoverato da noi per quindici mesi. Il bimbo è stato un anno in terapia intensiva: l’ho estubato l’ultima volta quando ha compiuto un anno perché ho detto: “Non può festeggiare il compleanno in terapia intensiva”. Gli abbiamo fatto la festa e non è più rientrato. Era nato il 17 ottobre 2007 e l’ho accompagnato a casa il 19 gennaio 2009. In quel lasso di tempo ogni giorno rischiava di morire. Ebbene, la mamma arrivava tutti i giorni all’una, quando aprivamo i vetri, guardava il suo bambino e mi cercava con gli occhi. Dal mio sguardo capiva come stava il suo piccolo. Ma tutti i giorni era lì e stava dentro al reparto quasi tutto il pomeriggio con una forza che mi sono sempre chiesta da dove le venisse. Sapeva che in qualsiasi momento il suo bambino avrebbe potuto morire, viveva con lo spettro della morte incombente. Era una donna intelligente, attenta a tutto, anche in reparto. Poi verso sera arrivava il papà, ma lei stava ancora lì, con una grinta formidabile. Oggi il bambino sta bene, siamo sempre in contatto».
Coi genitori si creano legami?
«Con alcuni c'è un rapporto professionale, con altri scatta qualcosa di più. Difficile dire il perché».
E invece nei bambini che cosa ha visto?
«Una forza incredibile. E la cosa che mi meraviglia sempre di più è che ogni bambino è diverso da un altro. Nei prematuri è evidente, ce ne sono alcuni che hanno una forza che gli fa superare tutto e altri che sono invece molto più fragili. La genetica fa la differenza. Ma poi quelli che ce la fanno in genere hanno dei caratteri fortissimi. Ne abbiamo una che era nata di 390 grammi, la più piccola in assoluto. Adesso ha otto anni e sta bene. È magrissima ma ha una determinazione rara».
Bambini piccoli, problemi piccoli. Bambini grandi, problemi grandi, dice il proverbio.
«Io vedo i problemi dei miei piccoli in patologia neonatale e sono problemi enormi. A volte è difficile anche decidere...».
Quali sono le patologie più diffuse?
«La prematurità resta sempre alta, nonostante il miglioramento delle cure ostetriche e il fatto che le gravidanze siano seguite meglio. La percentuale è rimasta pressoché la stessa, anche perché adesso sopravvivono bambini che un tempo non sarebbero sopravvissuti. Quando ho iniziato questo lavoro bambini di 23-24 settimane non ce la facevano, adesso sì. E poi ci sono i bambini con malformazioni congenite».
Lei è sempre sicura di fare il loro bene?
«Ogni tanto me lo domando: cominciano a soffrire appena nati e vanno avanti mesi, anni, sapendo che poi non avranno una vita facile. È giusto fare tutto questo? Ha senso? È eticamente corretto fare di tutto per salvarli? È economicamente compatibile? La risposta che mi sono data è che questo è il nostro lavoro e quindi ciò che possiamo fare lo dobbiamo fare, perché ogni vita ha un senso, indipendentemente che sia corta o lunga».
Che cosa pensa dell’aborto volontario?
«È una domanda difficile. Per convinzioni personali sono contraria, perché sono lì tutto il giorno per tirar fuori questi bambini malati e l'idea di rinunciare a uno che potenzialmente potrebbe essere sano è distante dalla mia esperienza. Però capisco che esistono situazioni difficili o di povertà intellettuale o morale. Io però vedo anche l'altra faccia della medaglia e a volte penso che se in certe condizioni una donna avesse abortito, forse sarebbe stato meglio. È difficile giudicare».
In Italia calano le nascite, la cosa la preoccupa?
«Certo. Anche gli stranieri adesso fanno meno figli sia perché si adeguano in fretta alla nostra cultura, sia perché il momento non è favorevole, né per noi né per loro».
Com’è stata la sua esperienza di madre?
«Facendo questo lavoro mi rendo conto di essere stata una mamma fortunatissima perché quello che uno ritiene scontato, come avere un figlio sano, non è così scontato, è un dono di Dio».
Alle sue figlie consiglierebbe di avere dei figli?
«Sì. Le mie ragazze sognano di avere figli, anche più di due».
Ma secondo lei esiste un numero giusto?
«Io ne avute due e sono felice, però mi sarebbe piaciuto anche se fossero state tre».