A proposito di immigrazione

I diritti dei lavoratori tra gli emiri Trecento frustate per uno sciopero

I diritti dei lavoratori tra gli emiri Trecento frustate per uno sciopero
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In tutta Europa e da qualche tempo anche negli USA sembra che il problema più importante sia quello degli immigrati. Ma sapete quanti ce ne sono nei paesi arabi? In Qatar su 2 milioni e mezzo di residenti il 90 per cento sono immigrati, nel Kuwait sono 4 milioni e 300 mila su 8 milioni di abitanti. E così in tutti gli altri Stati. Sono un esercito di formiche che costruiscono le isole artificiali di Dubai, gli hotel a sette stelle di Abu Dhabi, i mega mall che sorgono un po’ dovunque.

Sono filippini, africani, nepalesi, indiani, pakistani e asiatici di decine di etnie diverse. Sono gli inservienti invisibili degli alberghi di lusso o le colf delle ricche famiglie. Due milioni di colf immigrate a servizio nelle case del Golfo vivono condizioni di lavoro che definire pesanti è un eufemismo. Gli orari si prolungano indefinitamente (in Arabia Saudita le domestiche lavorano in media 64 ore alla settimana), senza rispetto dei riposi dovuti, con ritardi nel versamento del salario e maltrattamenti spesso anche di natura sessuale. Solo in Kuwait, il piccolo Paese governato dalla dinastia degli Al Sabah, da poco viene loro garantito un giorno di riposo settimanale oltre a un mese di ferie pagate. Diritti eccezionali nel contesto generale dell’area se è vero che Grace Princesa, ambasciatrice filippina negli Emirati Arabi, ha trasformato diversi locali dell’ambasciata in rifugi per decine di donne fuggite dalle case dei datori di lavoro in seguito a diversi abusi cui erano sottoposte.

 

 

Ma la maggior parte degli immigrati sono operai dipendenti dalle multinazionali edili. Vivono in ghetti di prefabbricati in cui, alla sera, file di pulmini li riportano, dopo interminabili giornate di lavoro di dodici ore in media sotto il sole a temperature che arrivano a 50°. Quelli che tornano a casa, perché gli incidenti sul lavoro non si contano. Il sistema di reclutamento inoltre prevede che il lavoratore rimanga legato al datore di lavoro, che gli sequestra i documenti, per tutta la durata del contratto. Sono i cosiddetti “schiavi del golfo”. Bassa manovalanza senza diritti.

Ne abbiamo sentito parlare solo quando i mondiali di calcio del 2020 sono stati assegnati al Qatar. Solo in quella occasione le organizzazioni dei diritti umani si sono risvegliate e hanno levato la loro voce. L’organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) delle Nazioni Unite, dopo che più di mille operai erano già morti nei cantieri della Coppa del mondo, ha concesso al Qatar un anno di tempo per cancellare le "pratiche di lavoro forzato in stato di sostanziale schiavitù”, pena il varo di una commissione d’inchiesta Onu con il rischio di sanzioni internazionali.

 

 

Ultimamente giungono notizie che qualcosa si muove e fanno bene sperare. Insieme alle altre ci arriva anche l’informazione che in Arabia Saudita a causa della crisi nel settore petrolifero, il settore edilizio vive un momento di grave difficoltà. E fin qui niente di strano.  Una notizia come un’altra. Se non che subito dopo veniamo informati che il colosso dell’edilizia Binladin Group, multinazionale fondata nel 1931 e di proprietà della famiglia Bin Laden, ha licenziato in tronco nel maggio scorso decine di migliaia di operai stranieri. Nel settembre 2015 durante i lavori alla grande moschea della Mecca il crollo di una gru aveva causato la morte di ben 109 persone. E non era stata una bella propaganda.

Inoltre pare che i conti in rosso dell’impresa risentano anche del ritardo con cui il governo saudita effettua i pagamenti e così da diversi mesi gli operai del settore edile, tutti immigrati, non ricevono più lo stipendio. Esasperati dalla situazione insostenibile per il mancato pagamento di molte mensilità hanno quindi deciso di fare un giorno di sciopero. Risultato: è intervenuto un tribunale della Mecca che ha condannato decine di lavoratori per un massimo di 45 giorni di prigione. Altri che hanno protestato in piazza hanno ricevuto trecento frustate e quattro mesi di carcere per danneggiamento di beni pubblici e istigazione al disordine pubblico. Frustate a parte, per qualche tempo almeno avranno qualcosa da mettere sotto i denti.

I diplomatici contattati dall’Afp non hanno voluto chiarire la vicenda affermando di non conoscerne i dettagli. Ma il 22 dicembre, presentando il bilancio del 2017 il Ministro saudita delle Finanze Mohammed Aljadaan, durante una conferenza stampa, ha rassicurato il mondo: il pagamento degli arretrati avverrà “entro 60 giorni”. Aspettiamo.

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