Parla l'ex direttrice della Carrara: «Cultura non è solo grandi mostre»
«Guardi, non sono mica tante le città dove le questioni di un museo finiscono in prima pagina sui giornali. Questo è molto bello! Dimostra quanto voi bergamaschi ci teniate alla vostra città e alle vostre istituzioni».
Quello che dice è molto gentile e generoso, resta il fatto che questa città prima l’ha mandata a chiamare per dirigere la sua prestigiosa pinacoteca dell’Accademia Carrara e dopo un anno di tempo le ha dato il benservito. Nemmeno il tempo di partire.
«È una città strana, Bergamo. Per esempio, avevo preparato una relazione per il consiglio dei garanti e me la sono trovata sui giornali. Chi l’ha fatto uscire, perché? E non è stato nemmeno l’unico caso... Insomma, per una pinacoteca non è usuale tanta attenzione. In venticinque anni di esperienza a Brera una cosa del genere non era mai capitata».
Lei ha una lunga e profonda esperienza nel mondo dell’arte, ha lavorato per anni alla Sovrintendenza e al museo di Brera. Che cosa pensa del mondo culturale bergamasco?
«Posso dire che conosco molto bene Bergamo e il suo territorio perché me ne sono occupata direttamente per conto della Sovrintendenza ai beni artistici e storici. Qui ci sono realtà molto importanti e penso naturalmente all’attività del teatro Donizetti, alla Carrara, ma anche a Lab 80, al Bergamo Film Meeting, Bergamo Scienza, Molte Fedi, le tante iniziative in campo musicale come il festival Jazz o il festival organistico».
I difetti?
«La frammentarietà. Lo avevo intuito già negli anni scorsi, in quest’ultimo anno ne ho avuto la conferma, Bergamo realizza un sacco di cose importanti e belle, ma non riesce a coordinarsi, a fare sistema. E a comunicare adeguatamente. E così le potenzialità si riducono. Pensi al numero di fondazioni presenti in questa città non grande. Ho l’impressione che esista una mentalità particolaristica ancora molto forte anche se stanno crescendo esempi di collaborazione».
Si sente spesso parlare delle grandi potenzialità di Bergamo, lei lo conferma. Ma in concreto che cosa intende?
«Bergamo Alta la conosciamo tutti, con i suoi monumenti, da Santa Maria Maggiore, alla biblioteca Mai, alla Cittadella. A Bergamo bassa Donizetti, Carrara, i borghi. Ma, al di là di queste cose molto note, la grande potenzialità di Bergamo sta nel territorio. Voglio dire che anche nella provincia, nonostante lo sviluppo di questi ultimi sessant’anni, si sono preservati dei tessuti urbanistici, delle realtà importanti dal punto di vista naturalistico, culturale e artistico. Un patrimonio diffuso e preservato».
Un esempio?
«Dossena. La chiesa parrocchiale, certi scorci, il paesaggio, la Mascherata. Il Cornello dei Tasso. La Valle di Scalve. La Valle di Scalve tutta intera, un colpo d’occhio fantastico, fra le poche zone che non hanno sofferto per l’assalto della nuova edilizia. In quella valle hanno resistito borghi antichi, ancora integri. Penso a Sant’Andrea, oppure a Barzesto. Ma anche il cuore di Vilminore, gli esempi sono tanti. E gli Almenno, che non sono soltanto le chiese romaniche di San Tomé, San Giorgio, Madonna del Castello. E ancora Rota Imagna, l’intera, suggestiva Val Taleggio, ma gli esempi sono davvero tanti».
Tanto patrimonio si è salvato nonostante l’urbanizzazione selvaggia.
«Sì. La popolazione è affezionata alla sua terra e questa è un’altra grande potenzialità, anche se questa affezione va guidata e disciplinata. Mi ricordo diversi episodi speciali negli anni in cui mi occupavo delle Valli».
Per esempio?
«Per esempio a Nasolino, una delle tre frazioncine che compongono il comune di Oltressenda Alta, in Valle Seriana. C’erano i legni della chiesa parrocchiale che erano tutti da restaurare, con una spesa ingente. Si mobilitò tutta la frazione, ottanta abitanti, con il parroco. Il falegname, gli alpini, i volontari lavorarono accettando di seguire le indicazioni di un restauratore e della Sovrintendenza. Eravamo verso il 1994, ne venne fuori un lavoro splendido».
Un altro caso?
«Olera. Il polittico famoso di Cima da Conegliano aveva bisogno di un restauro urgente, doveva venire portato nella bottega del restauratore, a Firenze. Ma il paese insorse: temevano che nel momento in cui fosse uscito dalla chiesa, il dipinto non sarebbe più tornato indietro. Non ci fu verso, la gente non si lasciò convincere. E allora la restauratrice fiorentina si trasferì a Olera e il restauro avvenne nella chiesa della Trinità, accanto alla parrocchiale. Il paese la adottò, la vezzeggiò, la coccolò. Tutti si interessarono del restauro e capirono che cosa fosse un intervento di questo genere. Ecco, questo senso di proprietà, di appartenenza, unito a una buona disponibilità economica, rappresentano una grande potenzialità per la conservazione del territorio e quindi per il suo valore culturale. E per la sua capacità attrattiva anche da un punto di vista turistico».
Torniamo alla Carrara: i conti sono in rosso.
«Il bilancio è in attivo, ma si sa che un museo non può sostenersi con i ricavi dei biglietti. Anche musei molto visitati come il Louvre o il Metropolitan di New York non raggiungono il pareggio senza sostegni pubblici e privati. Diverso potrebbe essere se si realizzasse un sistema museale al cui interno strutture molto visitate possono fornire ossigeno ad altre. È il caso di Vicenza con il Teatro Olimpico o della Fondazione dei Musei Civici veneziani dove, a esempio, Palazzo Ducale che ha oltre un milione di visitatori può contribuire a sostenere il Museo del Merletto...».
Ma per lei qual è il senso della nostra pinacoteca? È un luogo di attrazione turistica?
«Io sono dell’idea che sia giusto che il numero di visitatori aumenti sempre di più. Ma a una condizione: che il visitatore si possa soffermare sui quadri. Che il visitatore esca dal museo più felice, arricchito dentro. La Carrara dovrebbe diventare una meta irrinunciabile per chi voglia capire la città. Vede, il ministero ha lanciato questa buona iniziativa della prima domenica del mese con i musei a ingresso gratuito. E diversi musei vengono presi d’assalto, un mare di gente invade le sale, ci si spintona, si chiacchiera, il rumore disturba, non si riesce a fermarsi per osservare bene le opere... Ecco, credo che così non vada bene. Credo che questo sia segno di grande interesse potenziale, che deve però essere coltivato meglio. Un’esperienza per essere fertile deve venire gustata, assaporata. Capita. È un discorso di qualità».
Qual è il senso di un museo.
«Un museo racconta una storia, secondo me. E la trasmette. Man mano che lo si percorre è come se si ascoltasse una vicenda, una narrazione. Ma il problema è che oggi non abbiamo pazienza, che si privilegia il passo veloce del l’evento, di ciò che accade “qui e ora”, rispetto al passo complicato della storia. È pericoloso: si rischia addirittura di svilire la cultura, di ottenere un risultato contrario a quando si vorrebbe...».
Che storia racconta la Carrara?
«Racconta la storia dell’arte, dalla fine del Trecento alla soglia del Novecento. Molto semplicemente e molto acutamente. È un museo tradizionale. Ma siccome i musei tradizionali non sono particolarmente spettacolari, vanno in crisi. Lo sa qual è il tempo medio di osservazione di un dipinto da parte di un visitatore?».
No.
«Tre secondi».
Ah.
«E allora io dico che non bisogna guardare soltanto ai numeri, ma anche ai meccanismi, alla soddisfazione dei visitatori, a quanto un percorso possa incidere nell’emotività, nell’intelligenza di chi percorre le sale. Dobbiamo stare attenti a non svalutare la cultura. Questo non vuole dire che la “quantità di conoscenza e di emozione” debba essere inversamente proporzionale al numero di visitatori: la sfida da raccogliere è quella di arrivare ad avere un pubblico sempre più numeroso mantenendo alta la qualità della visita».
Ma perché lei ha voluto venire a Bergamo?
«Perché per me questa è la situazione ideale. Qui ci sono le condizioni perfette in termini di dimensioni e vivacità della città, di qualità delle collezioni, per verificare, come in un laboratorio, che cosa possa fare un museo dentro una città, cosa possa muovere, quali relazioni, quali idee, passioni».
Lei non ha avuto nemmeno il tempo di iniziare.
«In un anno si ara il campo, per così dire. Ma penso di poter affermare che tutti abbiamo fatto molto. Quando sono arrivata abbiamo dovuto cominciare letteralmente dalle fondamenta. Non esisteva un inventario aggiornato di tutto quello che c’era. Con la partenza della fondazione si è dovuto riordinare un po’tutto, anche perché la Carrara veniva da anni di chiusura e di restauri. Abbiamo dovuto immaginare attività che dessero un senso al museo, al di là dell’esposizione».
Perché l’hanno mandata via?
«Me ne sono andata perché soprattutto non sono riuscita a persuadere il consiglio di amministrazione della bontà della mia strategia, dell'importanza cruciale di una stretta relazione fra museo e città, prima di tutto, prima delle grandi mostre pur fondamentali. Non sono riuscita a fare capire che le iniziative di qualità hanno bisogno di tempi distesi e che non devono esaurire o cannibalizzare le molteplici attività di un museo».
Se tornasse indietro?
«Non si torna indietro. Errori ne ho fatti. Per certi aspetti sarei ancora più ferma, decisa, per altri più malleabile. Facile dirlo poi».
Di che cosa ha bisogno Bergamo?
«Parlo di Bergamo, ma credo che siano osservazioni valide in generale. Ha bisogno che questo attaccamento alle proprie cose, al proprio territorio diventi sempre meno campanilistico, particolaristico, e prenda un respiro più ampio e profondo: serve più conoscenza, conoscenza vera, della propria ricchezza. Della relazione con altri territori e altre ricchezze. Serve che ci si apra di più alla complessità del nostro mondo. Servono ancora più cura e attenzione per tutto quello di bello che c’è».
Lei pensa che l’arte sia il petrolio italiano?
«Ma certo che è così. Ma non tanto per via dei Musei Vaticani o per gli Uffizi. Diventerà davvero il nostro petrolio quando sapremo fare sistema e sapremo comunicare la bellezza della Valle di Scalve e degli Almenno e di Santa Giulia di Bonate a tutti, anche all’estero, con orgoglio, con conoscenza profonda e profonda umiltà».