Terza età e società

L’ultima battaglia di Emilia Strologo Se non è un Paese per vecchi...

L’ultima battaglia di Emilia Strologo Se non è un Paese per vecchi...
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«Bisogna mantenere gli anziani il più possibile a casa loro. Anzitutto per il fatto che le famiglie non possono più farsene carico perché le donne - gira gira il peso ricade quasi sempre sulle donne - lavorano e hanno già i figli da seguire; le case sono costruite per le coppie con figli e non per ospitare altre persone e non c’è neppure il tempo per portare il genitore a fare la visita medica o la passeggiata o la riabilitazione. Anche economicamente il peso è diventato insostenibile. E poi, di che famiglie parliamo? Adesso c’è la famiglia allargata, la famiglia ricostituita, la famiglia separata, ci sono i figli di lui, i figli di lei e i figli delle nuove coppie. Le donne stanno scoppiando».

 

 

Emilia Strologo parla nella sua casa sul viale Vittorio Emanuele. La prima psicologa della Bergamasca ha dedicato la vita ai più fragili. Le sue sono state battaglie memorabili contro i pregiudizi e gli stereotipi. Si deve anche a lei se nella nostra provincia i disabili hanno potuto uscire dall’ombra (solo qualche decennio fa venivano nascosti in casa), se le madri hanno potuto accedere in ospedale accanto ai figli (le infermiere erano refrattarie), se le donne mastectomizzate non hanno più dovuto vergognarsi (un tempo si pensava che il cancro fosse contagioso). E poi c’è stato il capitolo adolescenti e l’educazione alla legalità. Un duro lavoro culturale - era responsabile dell’unità operativa di Neuropsichiatria infantile della città di Bergamo - che ha cambiato il nostro sguardo sulle persone più deboli. Adesso che potrebbe godersi la pensione, “la dottoressa”, come atto di ringraziamento alla città, ha aperto un nuovo fronte: quello dei “vecchietti”, gli anziani ultraottantenni. Li chiama affettuosamente così «perché anch’io sono una vecchietta». E dice: «Vivo da sola e mi sono chiesta: di che cosa ho bisogno dal momento in cui al mattino metto le gambe giù dal letto?».

 

 

Di che cosa, dottoressa?
«Di continuare a vivere nella mia casa, di starci il più a lungo possibile e in uno stato di salute accettabile».

Niente Rsa, anche se sarebbe più accudita e assistita?
«Gli anziani nelle case di riposo mi fanno piangere il cuore. A casa propria ci si ammala di meno e si guarisce prima».

Come se ne esce dal problema?
«Servono nuove strategie. Le pensioni non sono più sufficienti e l’assistenza sanitaria non regge più questa ondata di vecchietti. Non si può neppure contare a lungo ed esaurientemente sui servizi socio-assistenziali dei Comuni perché ogni giorno li tagliano. Il volontariato non riesce ad arrivare dappertutto e pure le badanti sono diventate un costo improponibile».

Ci sono sempre le case di riposo.
«Si sono moltiplicate negli Anni Settanta, quando l’età media era settant’anni. Adesso a 70 anni uno entra, ma quando uscirà? Per di più le Rsa hanno costi non indifferenti, anche duemila o tremila euro al mese...».

E quindi?
«Non dobbiamo più pensare al vecchietto di una volta, fragile, debole, malato, triste ed emarginato. Noi dobbiamo sostenere un anziano che sia capace di autonomia e autosufficienza il più a lungo possibile. Dobbiamo aiutarlo a non perdere l’autostima e il senso del valore di sé».

 

 

Lasciandolo da solo in casa?
«L’anziano a casa sua sta bene, è il mondo in cui è sempre vissuto, lì ci sono i suoi ricordi, le sue pentole, i suoi libri. Bisogna semplicemente sistemare le case in modo da renderle più agevoli, eliminando i fattori di rischio, perché le case invecchiamo con la gente. Io ho posato pavimenti antiscivolo, eliminato le barriere e sostituito i fornelli con la piastra a induzione per evitare di dimenticare il gas acceso».

E poi?
«E poi va garantita un’assistenza sanitaria adeguata. Gli anziani quando non stanno bene si fanno prendere dall’ansia e per prima cosa corrono al Pronto soccorso. Gli ospedali sono diventati delle porte girevoli: i vecchietti entrano, vengono ricoverati e poi rimessi fuori nella stressa situazione. Allora mi sono rivolta alla Croce Rossa ed è partita una sperimentazione: squadrette di tre volontari, presentati agli anziani dai medici di base, si prendono cura di alcuni di loro andando a trovarli, vanno a misurargli la pressione o a prendergli la glicemia, a controllare i parametri vitali di base e ad accertarsi se hanno mangiato o assunto i farmaci. Uno dei volontari diventa il referente dell’anziano per qualsiasi bisogno. Già avere qualcuno a cui rivolgersi quando ti viene una preoccupazione, ti dà tranquillità. Proviamo per sei mesi, è tutto da inventare. Attenzione però: bisogna assisterli a casa, ma non come dei reclusi. Sarebbe anche importante impostare un modello di città amica degli anziani, accogliente. Perché, ad esempio, non abbiamo un servizio sanitario in giro per le strade?».

Chi paga questa sperimentazione?
«Io. Sono tre anni che vado rompendo le scatole a tutti su questo tema e non le dico le resistenze dovute alla rimozione del problema».

Quando siete partiti?
«Il 14 febbraio, il giorno di San Valentino. Mi è piaciuta la coincidenza perché anche questo è un gesto d’amore, no?».

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