Hagi, il "Maradona" dei Carpazi
Provate a chiederlo a un bambino oggi che i calciatori sulla maglietta hanno il venti o il novantanove, e non si dice più il terzino o lo stopper per dire cosa devono fare, lui vi dirà lo stesso che il dieci è il numero magico e non è uguale a tutti gli altri che scendono in campo. Ha un fascino diverso perché l’hanno indossato i più bravi, e questo lo sappiamo tutti. Ma è molto più importante di così. Passano le generazioni, i tempi cambiano, e anche il calcio. Lo fa insieme alla società, al costume, al sentimento. Alla vita. Qualche volta ne è lo specchio, ma più spesso ci dice dove stiamo andando e chi siamo (o siamo stati) veramente. Quando Maradona segnò all’Inghilterra quello che poi è passato alla storia come il gol del secolo, capimmo che cosa era la fantasia. È dietro questa evoluzione della specie che sopravvive la leggenda dei numeri dieci. Uomini prigionieri di una libertà creativa troppo grande per essere di tutti.
GHEORGHE HAGI
Saranno sempre i popoli a fare le rivoluzioni, ma pochissimi uomini avranno il privilegio di rappresentarle. Faccia quadrata, guance scavate, catena d'oro al collo, Gheorghe Hagi l'abbiamo visto passare di sfuggita anche nel nostro calcio. Più come una meteora che da luminosa stella tra i numeri dieci. A portarcelo era stato il presidente del Brescia Corioni: era un suo vecchio pallino, dai tempi del Bologna. Quando gestiva i conti dei rossoblù, e dall'estero arrivavano stranieri certificati con la garanzia di un talento smisurato, la trattativa tra lui e il procuratore di Hagi era andata avanti per mesi. Corioni gli telefonava tutte le sere prima di andare a dormire, e quello, fiutato l'affare, tutte le sere gli rispondeva in un romeno annacquato: «Tranquillo, presidente, il giocatore è suo». Alla fine persino Corioni aveva dovuto smetterla di sognare a occhi aperti. Ma poi, cocciuto com'è, ci aveva riprovato qualche anno più tardi - era il '92 - e questa volta ce l'aveva fatta soltanto perché in panchina c'era Lucescu, che Hagi lo aveva allenato in nazionale.
E' da lì, dalla Romania, che meglio si comprende il senso dell'insolenza di Hagi. Lo hanno sempre descritto silente, le parole come spilli, leader di qualsiasi spogliatoio abbia occupato in carriera. Negli anni Ottanta il popolo romeno era a un punto di svolta, tutta l'Europa lo era ma lì di più. L'insofferenza nei confronti di Ceaușescu e di sua moglie Elena era montata al punto che un giorno di dicembre la gente aveva deciso di scendere e occupare le strade, con i bastoni, con i rastrelli e con i fucili da caccia, chi li aveva. Erano stanchi di ricevere duecento grammi di salame al giorno, di vivere nella polvere, di fare la fila ai negozi di alimentari pieni soltanto di ragnatele, e di non poter usare i contraccettivi perché la patria voleva più figli, sempre più figli. Figli come Hagi. Era finita con i contadini, gli studenti e gli operai arrampicati sui trattori che facevano il segno di vittoria e urlavano slogan. Sui convogli della metropolitana, sui tetti, e dalle finestre sventolavano le bandiere con un buco al centro, dove era stato tagliato il simbolo del regime comunista. Quando Ceaușescu si era preso il potere, Hagi aveva solo due anni. Ma è in un senso di privazione che viene costretto a crescere. Proprio lui, così dotato di fantasia col pallone. Prima che potesse giocare con uno di cuoio vero, ha raccontato che quando era piccolo il nonno gliene aveva fatto uno con la vescica di porco, e poi un altro con il crine del cavallo. E lui giocava, libero di una libertà - come sempre quando si è piccoli - inconsapevole e bella.
Il giorno della finale di Supercoppa europea contro la Dinamo, l'altra squadra della capitale, la Steaua, che era quella del regime, volle Hagi per essere sicura di vincere. Una partita, nient'altro, e la vinse. Poi per Hagi era stato tutto più facile. Oggi ha quarantanove anni, la casa dove è nato è un museo, e lo stadio di Costanza, la sua città, porta il suo nome. Quando giocava erano arrivati a chiamarlo Maradona, non quello vero, quello dei Carpazi, le montagne dal suo orizzonte di ragazzo. Anche questo ha contribuito a renderlo una leggenda. Hagi in patria è sempre stato un dio, ma è quando il Muro è venuto giù che ha potuto mostrare al mondo il suo talento.
E c'è un gol che bene rappresenta l'esagerazione di Hagi, tutta la costernazione esplosa subito dopo la fine del regime. La rottura degli schemi. Lui gioca nel Real Madrid, e contro c'è l'Osasuna. Gli avversari gestiscono a centrocampo, ma Hagi ha fame, voglia, rabbia. Morde la palla, la recupera, tira senza guardare. Cinquanta metri di traiettoria: la parabola dell'ignoto futuro romeno, di cui anche lui era parte. Quando il ct della Romania, Iodorescu, ai mondiali americani del '94 obbligava la squadra a guardare una videocassetta degli avversari undici volte di fila, dopo Hagi portava i suoi compagni a passeggiare nel parco. Raccontava di quella volta che il portiere Ducaman aveva parato quattro rigori nella finale di Coppa dei Campioni. Gli avevano spezzato le mani di pianista solo perché non aveva regalato il suo premio al figlio di Ceaușescu, e in realtà gli spezzarono la carriera. Raccontava delle cose brutte, quelle che non dovevano più tornare. Hagi, a modo suo, ha raccontato una rivoluzione.