Intervista in memoria di don Corinno Scotti: «A volte fatico a credere all'amore di Dio»
Dopo Brembate, viveva ritirato in un piccolo santuario a Levate. «Di fronte a tanto dolore mi viene spontaneo dire: “Signore, perché non ti fai sentire?”».
Ieri (lunedì 12 agosto), all'età di 84 anni, è morto dopo una lunga malattia don Corinno Scotti. Da molti ricordato come "il parroco di Yara", fu in realtà molto di più. Un grande uomo, un grande prete. I funerali si terranno domani nella sua Morengo, ma oggi vogliamo ricordarlo riproponendovi questa bella e lunga intervista che gli facemmo sette anni fa, nel maggio 2017, poco dopo che don Corinno era andato in pensione. Una chiacchierata nella quale è possibile "sentire" tutta l'umanità e la grandezza di don Corinno. Il nostro modo per ricordarlo.
di Ettore Ongis
Don Corinno Scotti è nato 77 anni fa a Morengo, nella Bassa Bergamasca. Il papà faceva il falegname e la mamma era casalinga. Prima di lui sono morti sei fratellini, gli unici sopravvissuti sono stati lui due sorelle nate dopo di lui. Ha frequentato le scuole medie a Treviglio (a Morengo non c’erano) e il ginnasio dai salesiani. All’inizio del liceo è entrato in Seminario a Bergamo. È stato ordinato sacerdote dal vescovo Piazzi l’8 giugno 1963, cinque giorni dopo la morte di Papa Giovanni. Per otto anni è stato curato all’oratorio di San Tomaso a Bergamo e poi per dieci anni ha vissuto in missione a Esmeraldas, in Ecuador. Ricorda: «I primi cinque o sei mesi avrei voluto venire a casa in bicicletta o anche a piedi, se avessi potuto. Poi è stato bellissimo». Tornato a Bergamo ha rivestito alcuni incarichi in Diocesi ed è stato parroco a Guzzanica, Paladina e dal 2002 al 2015 a Brembate Sopra. Lo ha sempre accompagnato il pensiero di un vecchio prete comboniano che in Ecuador gli aveva detto: «Corinno, quando andrai via magari si dimenticheranno di te, ma l’amore che hai messo dentro, quello resta».
«Don Corinno, vorrei venire a parlare un po’ con te di Gesù. «Di Gesù sì, vieni, perché se parliamo di preti o di giornalisti non ci salviamo più». Don Corinno Scotti - lo ricorderete - è stato il parroco di Yara a Brembate Sopra. Un anno e mezzo fa è andato in pensione e lo hanno destinato a un santuarietto, la Madonna del Bailino di Levate, sulla strada tra Stezzano e Verdello. Aveva detto al vescovo di voler stare vicino alla Madonna. La sua casa è piccola e carina, col patio e un giardinetto interno. Don Corinno ha portato i libri al piano di sopra, ma vive in pochi metri quadrati a pian terreno. Intorno al santuario c’è un piccolo quartiere dove abitano circa millecinquecento persone. La chiesa parrocchiale dista un chilometro e mezzo. Don Corinno dà una mano anche al parroco. Quando gli faccio notare che uno come lui avrebbe meritato un grosso santuario, taglia corto: «Guarda che io sto qui volentieri. Dai, dimmi di che cosa dobbiamo parlare...».
Di te.
«Di me non c’è niente di interessante da dire».
Allora ti dico che un mesetto fa per la prima volta ho visto il santuario del Perello, ci sono capitato per caso. È un incanto: c’era tanta gente che puliva e preparava la chiesa perché a Pasquetta riapriva. Erano tutti contenti. Sono andato da uno di loro e gli ho chiesto: «Quanto vi pagano per fare questo?». Lui ha sorriso: «Siamo volontari... » .
«Ecco, questo è un buon inizio, perché il gesto di quelle persone è molto significativo per la Pasqua: pulire la chiesa, purificare la chiesa. È la missione che si è assunto Papa Francesco, convinto com’è che la chiesa deve anzitutto essere fedele al suo Signore e agli uomini di oggi. Per questo, come in ogni tempo, ha bisogno di essere purificata».
La chiesa indietreggia, don Corinno, interessa sempre di meno...
«Quando mi trovo con gli altri preti della mia generazione siamo tentati di fare confronti con il passato e viviamo un po’ di nostalgia, è anche normale. Noi siamo gli ultimi che hanno visto il Concilio. Ne abbiamo vissuto i fermenti, tutti quei cambiamenti che avevano mosso una speranza enorme nella chiesa, e che poi han dato grandi frutti, ma anche grosse fatiche, difficoltà, illusioni e tradimenti».
Tu da giovane, dopo nove anni alla parrocchia di San Tomaso, hai chiesto di andare in America Latina...
«Allora l’America Latina era l’ideale di chiesa. Una chiesa povera, vicina alla gente: c’erano le comunità di base, la teologia della liberazione. Laggiù ho conosciuto grandi vescovi e grandi preti . Nell’epoca delle dittature c’erano tantissimi martiri e profeti. Ultimamente mi pare però che anche la chiesa dell’America Latina si sia un po’ appiattita. Eppure noi continuiamo a credere che la profezia sono i poveri, la gente semplice».
Ci sono anche da noi?
«Ci sono anche a Levate, a Bergamo, ci sono dappertutto. Il Signore fa la sua storia non con i grandi, non con i potenti: la scrive con i piccoli. Questo è il criterio di Dio. Lui non sa che cosa farsene dei prepotenti».
Credere a questo in un mondo in cui domina l’arroganza e la legge del più forte non è facile.
«No, anche perché in questo dramma siamo tutti coinvolti: il benessere, il lusso, l’inquinamento della mentalità investono anche noi. Anche me. Io sono il primo a non essere coerente. Ma queste donne e questi uomini che puliscono la chiesa, e il fatto che per loro sia normale, ci fa pensare che sono ancora le persone semplici che ci aiutano a rimanere fedeli».
Loro più dei preti e dei teologi?
«Il nostro vescovo deve metterci tutta la fantasia per inventare il volto nuovo della chiesa. In una chiesa come quella bergamasca, che è sempre stata molto clericale, il fatto che diminuiscano i preti porta necessariamente a inventare nuove forme di presenza sul territorio: i vicariati e le fraternità sacerdotali sono strade quasi obbligate. E la chiesa necessariamente dovrà diventare sempre di più fermento, lievito. Un faro che illumina e non ha bisogno di essere guardato. La chiesa per far luce deve essere una chiesa povera».
In apparenza ostenta ancora sicurezza.
«In realtà c’è tanta paura. E il contrario della paura non è il coraggio ma la fiducia. La fede, la speranza. La speranza è una cosa seria, un dono di Dio. Le nostre speranze normalmente sono molto corte, non vanno oltre le ferie, o poco più. Invece la speranza è il volto della fede».
È provvidenziale per la chiesa di Bergamo questo periodo difficile?
«Sicuramente. La chiesa non è un’impresa che ha bisogno di piazzar bene i suoi prodotti o di vendere eventi religiosi. La chiesa è il mistero della presenza del Signore che provvede, che si prende cura. È Dio che guida la storia e la guida in questa società e in questo mondo sazio e disperato, in questo mondo dove non ci si fida più. Una delle cose che ripeto sempre è: impariamo a fidarci, impariamo a stimarci di più. Stima vuol dire: tu sei importante per me. E io sono importante per te».
Ad accogliere il Papa a Milano c’era un milione e mezzo di persone. Persone sfiduciate come quelle che stai descrivendo, come te lo spieghi?
«Forse perché Papa Francesco è l’unica persona che col suo modo di essere, di vivere, di fare il prete e il Papa, apre il cuore, ti fa sentire importante, ti lascia dentro la nostalgia della semplicità. Il suo pontificato è fatto di gesti, segni, parole comuni, ma vere».
Ma tutta questa insistenza sui poveri: cos’hanno di speciale?
«Niente. I poveri non sono quelli carini che ti sono riconoscenti, ti ringraziano: sono dei grandi rompiscatole, ti raccontano un sacco di balle, sono a loro volta prepotenti. Però Gesù ha voluto bene a loro non perché erano buoni, ma perché erano poveri. Punto».
Tu sei contento della tua vita da povero?
«Magari fossi uno dei poveri del Vangelo, vorrei esserlo. Non sono stato né povero né ricco. Mi danno tanti aiuti per i poveri, questo sì».
Hai 77 anni e a Gesù hai dato tutto te stesso. Non ti viene il dubbio che, per come sono messe le cose, la vita pienamente riuscita sia un’altra?
«Non scandalizzarti se te lo dico, ma a volte faccio fatica a credere all’amore di Dio. Vedendo tante situazioni tragiche, ascoltando uomini e donne costretti a portare croci pesantissime, mi viene spontaneo dire: “Signore, ma di fronte al dolore degli innocenti, di fronte a tanta sofferenza, dove sei? Perché non ti fai sentire?”. Sono cose che mi tiro dietro dai tempi di Yara. Quello è stato un periodo che da un lato mi ha fatto un bene dell’anima, dall’altro mi ha fatto patire come non mai. E non solo per Yara».
Questa tua incessante invocazione, spesso non ha avuto riscontri. A partire dalla vicenda di Yara.
«Sì, è così».
E che risposte ti dai?
« L’unica mia risposta è guardare la croce. Perché su quella croce non c’è un uomo buono che muore per amore di Dio, c’è un Dio che muore per amore dell’uomo. Su quella croce c’è un innocente e un innocente è colui che non nuoce, che non fa del male, ma che il male lo prende su di sé. Quelli che soffrono sono sempre gli innocenti. È una cosa che dicevo già quando facevo catechismo ai ragazzi a San Tomaso: quando tu sei cattivo c’è qualcuno che soffre per colpa tua. E quando questa cattiveria è così grande da provocare quello che vediamo in Egitto o in Medio Oriente, immagina la sofferenza: il mondo è un mare di lacrime. Bisogna guardare quella croce con gli occhi del cuore. E sai perché la croce del Signore è così pesante? Perché in essa c’è la croce di tutti i suoi figli. Finché ci sarà un uomo, una donna, un bambino che è sulla croce, Gesù resta in croce».
Yara alla fine è rimasta un fatto di cronaca nera e giudiziaria.
«No, questo no. In casa mia appena entrati c’è la sua foto e dentro c’è un biglietto di suo papà, il Fulvio. Su quel biglietto c’è scritto: “Don Corinno, io credo che il Signore abbia voluto Yara in Paradiso perché noi diventassimo più buoni”. Io questo l’ho sempre sostenuto: Yara deve farci diventare più buoni, altrimenti ha vinto l’assassino».
Dove vedi segni di risurrezione?
«Per riconoscerli servono gli occhi trasparenti di un bambino, come dice una canzone, ma i segni ci sono. Io sono tutti i giorni testimone di persone che vivono dolori indicibili e non hanno perso la fiducia. Sono andato a far visita ai malati all’ospedale di Zingonia nel reparto di oncologia. Ho incontrato una signora anziana e lei mi ha detto: “Quasi quasi preferisco restare qui in ospedale, perché sono vedova e non ho nessuno”. Una malata oncologica! Ma me lo diceva con una incredibile serenità. “E poi – ha aggiunto – sento che il Signore mi è vicino”. Capisci, Ettore? Fin che lo dico io prete, e lo dico da prete, è un conto, ma questi sono i santi. Questi sono i segni. Certo, nessuno mai farà pubblicità a queste persone: sono i santi nascosti nel cuore di Dio. Ma sai quanti ce ne sono?».
Negli ospedali ci sono anche persone disperate.
«È chiaro. Un altro ammalato di cancro mi ha detto: “Non venga a parlarmi del Signore, sono tutte cazzate”. “Coraggio amico – gli ho detto -, il Signore le vuol bene comunque” e gli ho dato un abbraccio. Di questi fatti ne ho piena la vita, in positivo e in negativo».
Tu, insomma, sei sicuro.
«Sono sicuro di uno che non ha messo la croce sulle spalle degli altri, ma ha preso sulle sue spalle le nostre croci. Dobbiamo essere capaci di dirlo con la nostra vita. Francesco, mica il Papa, quell’altro, ripeteva: “Annunciate il Vangelo, se è necessario anche con le parole”».