Storia (e rivincita) del Tavernello che s'è "bevuto" Amarone e Brunello

Emblema del cosiddetto "vinaccio", più sbeffeggiato del vecchio e caro "vino della casa" delle peggio trattorie, con quella brutta scatola che nulla ha di che spartire con le eleganti bottiglie in vetro degli altri vini, quelli «di qualità», Tavernello ora si prende la sua meritata rivincita. Nessuno lo beve, ma intanto quattro milioni di famiglie italiane lo comprano e lo mettono sulle proprie tavole; numeri abbastanza forti da aver arricchito alla grande il suo fondatore, l'enologo Giordano Zinzani, che, nonostante la sua erre moscia alla francese, di snob non ha proprio niente, e che ora, grazie al suo "vinaccio", s'è preso la maggioranza della Cesari, storico marchio dell'Amarone, delle Cantine Leonardo (Chianti) e della Cantina di Montalcino, quella del Brunello.
La nascita di una stella. Insomma, la storia di un successo. Che il Corriere della Sera ha raccontato in un bell'articolo di Luciano Ferraro, dove è stata ripercorsa la finora poco nota storia del vino più acquistato dagli italiani e più esportato all'estero (anche questo non lo sapevate, vero?). Oggi, Tavernello sostiene ben trentadue cantine sociali in giro per l'Italia e Zinzani è stato in grado di sostenere ben tredicimila piccoli produttori, pagando le uve prima destinate ai camion cisterna per trasformarle nel suo vino "di massa". Come racconta lo stesso Zinzani al Corriere, tutto ebbe fatalmente inizio da un fallimento imprenditoriale. Lui aveva solo 25 anni: «L'esercito, nel 1980, ci chiese del vino da poter portare negli zaini dei soldati, cercavano un'alternativa al vetro. Alla Corovin (la sua coop di allora, ndr) ci mettiamo al lavoro chiedendo aiuto all'Università di Bologna e all'azienda TetraPak». È grazie a queste collaborazioni che Zinzani scopre le grandi qualità del TetraPak, una confezione che permette al vino di mantenere tutte le sue caratteristiche anche dopo diciotto mesi. Il problema era che allora la legge consentiva, per la produzione e vendita di vino, soltanto l'utilizzo di vetro, legno o coccio. E così, nell'attesa che la normativa cambiasse, l'esercito cambiò idea. «Ci siamo trovati con i test, ma senza cliente - racconta Zinzani -. Però a quel progetto ci credevo, volevo andare avanti, mentre gli altri dicevano che spezzare il legame tra vino e vetro sarebbe stata una provocazione».
Dalla Standa al mondo. Finalmente arrivò il permesso, ma mancava il nome. La coop si rivolse a diverse agenzie di marketing di Milano, ma nessuna di quelle proposte convinceva veramente. Il loro era un vino semplice e necessitava di un nome semplice, che parlasse alla gente. E così, alla fine, a vincere fu la proposta avanzata da «un gruppo di ragazzi di Imola, età media 27 anni. Hanno pensato a un richiamo alla taverna e quindi alla convivialità e hanno disegnato il marchio. Per cinquecentomila lire di onorario. Ancora adesso rimpiangono di averci fatto pagare così poco». In quel momento erano soltanto nove le cantine consorziate, e tutte con uve di Trebbiano. Vino bianco, dunque. E furono proprio queste cantine a permettere alla Corovin di prendere in carico il primo lavoro: sei milioni di litri in nove mesi alla Standa. Fu l'inizio di tutto, come ricorda Zinzani: «Migliaia di contadini ci portavano il Trebbiano, i nostri enologi li seguivano con direttive su come gestire le vigne». Dal Trebbiano al Sangiovese, vino rosso. Ma ben presto l'Emilia Romagna non bastava più a soddisfare tutte le richieste. A distanza di circa 25 anni, le uve arrivano un po' da tutta Italia: Friuli Venezia Giulia, Umbria, Marche, Toscana, Puglia, Sicilia, per un totale di ottanta milioni di litri l'anno. Prezzo di vendita? 1,59 euro al litro.
Il successo, il dileggio, la rivincita. Tutto bellissimo, certo. Ma la qualità... Con un prezzo così basso, come si possono coprire i costi? «Il vino sfuso che usiamo costa meno di cinquanta centesimi, con ottanta copriamo tutti i costi grazie alle economie di scala» dice Zinzani al Corriere. Intanto la "piccola" Corovin è stata inglobata da un'altra coop, la Caviro, che oggi fattura 304 milioni di euro l'anno. Merito di 37mila ettari di vigneto, cinquecento dipendenti e un giro di lavoro che impegna addirittura l'undici per cento delle uve italiane, cioè circa sette milioni di quintali l'anno. Tutto grazie al vino in scatola. Ma questo non sarebbe stato possibile senza un grande impegno pubblicitario. Sin dall'inizio, infatti, Zinzani ha capito che doveva far conoscere il suo Tavernello, puntando sul fatto che si tratta di «un vino onesto, per le famiglie». Un vino corretto, insomma. Alla buona. Non certo roba per critici ed esperti, che infatti lo hanno sempre snobbato. Jacopo Cossater, su Intravino, ha scritto: «Il Tavernello è senza difetti apparenti. Ma non lo acquisto perché in un vino cerco emozioni, non correttezze». Tutte opinioni che non hanno mai infastidito Zinzani. Anzi, Secondo Ricci, ex presidente di Caviro, nel libro Il caso Tavernello di Silvia Williams ha detto: «L'essere visti come dissacratori della nobiltà del vino è stata una fortuna, nessuno ci ha fatto concorrenza e il fatturato è cresciuto». E Zinzani c'è sempre stato: lì, inamovibile, lui, la sua erre moscia e il suo amore per quella folle, geniale idea che fu Tavernello. Che oggi, però, ha voluto prendersi una piccola rivincita contro quei "bulli" che l'hanno sempre trattato come l'ultimo degli sfigati e ha permesso alla Caviro di acquistare un celebri marchi dell'Amarone, del Chianti e del Brunello. Cin cin.