«Perché?» «Perché no?»

Alex Bellini, il grande esploratore che sogna di vivere su un iceberg

Alex Bellini, il grande esploratore che sogna di vivere su un iceberg
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Perché? «Perché ero caduto nella trappola del conformismo. Studiavo Scienze bancarie prima di iniziare a frequentare l’avventura. Ero una persona mediamente soddisfatta della vita. Famiglia, amici, sport. Ma certi giorni mi fermavo a pensare, a riflettere. “Non è che questo mi esalta”, mi dicevo. Riconoscevo a me stesso che c’era qualcosa che non mi piaceva, però continuavo a farlo. A vent’anni uno studia, e io scelsi una facoltà che non mi interessava. Mi sembrava solo la scelta giusta da fare. Dopo tre anni mi resi conto che stavo correndo un rischio, cioè fare qualcosa che non mi piaceva. E allora, con coraggio, presi la decisione di cominciare a disegnare il mio percorso, a costruire la mia strada».

Così sono iniziati i viaggi, i sogni, i progetti, le sfide. Così si è gonfiata l’idea che la vita è sì una grande avventura, ma se la vivi con un po’ di coraggio è persino più bella. Ha affrontato luoghi, ambienti, ostilità. Ha attraversato a pagaiate due oceani (l’Atlantico e il Pacifico) e a piedi il ghiacciaio più esteso del mondo. Eppure, a 39 anni, Alex Bellini ha il fascino di chi ha semplicemente trovato la risposta al suo perché. «Nella vita bisogna avere coraggio nonostante la paura, perché la vita è una sfida continua. Ci vuole anche il coraggio di non lamentarsi, quello di andare avanti, magari di ripartire da zero. O di fermarsi e rinunciare. Talvolta anche questo coraggio manca. Siamo testardi, andiamo avanti perché è eroico resistere ma non c’è nulla di eroico nel perseverare».

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Lei però ha sempre in testa quel grande progetto: sopravvivere su un iceberg fino al completo scioglimento.

«Vero, non desisto. È un desiderio che ho ormai da cinque anni».

E a che punto siamo?

«Raccolta fondi. Nel 2015 sembravamo molto vicini a un accordo con uno sponsor. L’aspetto della ricerca e della gestione del rischio non è semplice, è molto elevato».

E poi?

«Quando c’è da tirare le fila, be’, qualcosa cambia. C’è bassissima possibilità di successo. Un’azienda vorrebbe avere la certezza che la cosa vada a buon fine. Ma il rischio è che finisca dopo tre giorni».

Come l’è venuta l’idea?

«Cominciò tutto nel 2008. Lessi di Umberto Nobile, maresciallo dell’aeronautica degli anni Trenta. Sorvolò il Polo Nord e nel ’29 naufragò con il dirigibile Italia. Insieme ai suoi compagni riuscì a sopravvivere su un ghiacciaio alla deriva. Io ero nel Pacifico e mi domandai come potesse un uomo sopravvivere in un luogo in cui tutto è fuori dal controllo. Sto cercando di ricreare quella situazione in chiave moderna».

Una rivisitazione.

«Sì, su un iceberg. Che diventi una metafora ambientale. Un uomo alla deriva su un pezzo di ghiaccio, uguale, genere umano alla deriva sul pianeta».

Ne abbiamo davvero bisogno?

«C’è bisogno di portare all’attenzione i cambiamenti climatici. Facciamo finta che non esistano, ma non è così. Scompare un ghiacciaio in Islanda? Va be’. C’è sempre un distacco tra quello che succede e noi».

 

 

Per questo pochi mesi fa ha attraversato, d’inverno, il Vatnajökull, il ghiacciaio più grande del nostro continente?

«Lei sapeva dell’esistenza del Vatnajökull?».

No…

«Non sopravviverà al prossimo secolo, si scioglierà. Adesso c’è attenzione, una presa di coscienza. Bisogna ricucire questa distanza tra l’ambiente e l’uomo».

Com’è stare sul ghiaccio?

«Incute molto timore. A differenza del mare, dove a un certo punto inizi a capire quello che l’ambiente ti dice, lì non puoi. Sul Vatnajuokull ti svegli la mattina e prima di andare a letto avrai vissuto tutte le stagioni. Senza farti mancare i grandi venti. Soffiano anche a cento chilometri orari, portano via te, la slitta, la tenda. È qualcosa di minaccioso. L’unico futuro è l’ora seguente. Non puoi programmare la giornata».

Questo che sensazioni dà? Vivere davvero la vita come se ogni istante fosse l’ultimo è fattibile?

«Il bisogno dell’essere umano è quello di pianificare. Pianifichiamo il futuro sulla base di quello che conosciamo oggi, ma poi i piani vanno a farsi benedire. È un po’ una balla, la pianificazione riduce i rischi. Sul ghiacciaio il futuro è impensabile. Quello che è capitato a me è stato rinunciare alla visione proiettata sul futuro. Dopo cinque giorni, per esempio, sono finito dentro un crepaccio. E quindi dici: caspita, non era questo che mi ero programmato».

 

 

Caspita. Come ne è uscito?

«Sopravvivenza. È come se dentro di me avessi un bagaglio di conoscenze per la lotta tra la vita e la morte. Mi ha portato a salvarmi e a proseguire l’avventura. Adesso percepisco un po’ di paura. È stata una questione di millimetri. Non essere stato sfiorato dalla slitta di sessanta chili che poteva urtarmi e tirarmi ancora più giù».

Parlava del clima. Cosa possiamo fare per il pianeta?

«Ricreare una connessione con la natura. Siamo totalmente distaccati. Possiamo accompagnare le generazioni future a ritrovare il dialogo che abbiamo perso».

Lei cosa fa nel quotidiano?

«Cose semplici, guardo con aria meravigliata la bellezza della natura: è quando sappiamo emozionarci con la natura che questa ci ascolta. Se non sei emozionato da qualche cosa non puoi essere consapevole».

Alle sue figlie Sofia e Margherita, di 7 e 5 anni, come spiega il lavoro che fa?

«Io e mia moglie facciamo il possibile. La mia è un’attività che coinvolge l’intera famiglia. Siamo stati in Groenlandia, per esempio, e abbiamo fatto vedere la capsula dove starò quando andrò sull’iceberg. Hanno giocato dentro, così sarà più semplice per loro ricordarsi e capire. Siamo stati in Svezia. Abbiamo costruito una zattera e abbiamo navigato un fiume in una settimana. Piccole esperienze che allenano le mie figlie a riconoscere i giusti equilibri».

Che si fa su una zattera?

«È un’avventura molto lenta. Giocavamo, con calma. “Papà, cosa facciamo?”. Guardiamoci in giro, costruiamo oggetti con gli stecchini, leggiamo. Dopo i primi due giorni hanno capito il meccanismo e hanno iniziato a godere di questa esperienza più unica e che rara. Perché poi scendi e hai ritmi diversi».

Quanto è importante la lettura per lei?

«Molto. Il mio rapporto con la lettura è da passa-tempo. Quando stavo in mezzo all’Atlantico e al Pacifico, la lettura mi portava lontano dalla monotonia. Mi è capitato nell’Atlantico, per esempio, di rimanere diciotto giorni nella mia cabina per il brutto tempo. Avevo i libri, per fortuna. Sarei impazzito. Invece la lettura ha la forza di farti vivere o essere quello che non sei in quel momento. Amo i libri che parlano di esplorazione. L’ultimo Parallelo, che racconta gli ultimi giorni di di Robert Falcon Scott. O i diari di Shackleton: ti danno la sensazione che l’uomo sa resistere».

Ma i limiti esistono?

«Grazie a Dio sì. L’importante è scoprire quali vale la pena superare. Io ho scoperto quali bisogna lasciare intatti».

 

https://www.youtube.com/watch?v=qdInMpcRNEU

 

Quando?

«Nel 2008, in mare. Mi fermai a sessanta miglia da terra. Limiti fisici, ero molto stanco, non riuscivo a remare a una velocità sufficiente. E limiti geografici, perché ero molto vicino alla barriera corallina. Limiti umani, incrociavo sempre più spesso grandi navi e di notte non riuscivo a dormire. Sopraggiunse anche il maltempo, avevo paura di rimetterci la mia vita. Mi sono fermato. È stato il successo più importante della mia vita. Perché al di là dei successi che ti consegnano alla storia, ci sono quelli più personali: fare la scelta giusta».

L’Alex della vita precedente, quello che non partiva all’avventura, esiste ancora?

«Da qualche parte. Ma è un po’ come un libro travolto da tanti altri libri. C’è sempre quella parte di me un po’ pigra, che si crea delle scuse, che conferisce all’esterno la causa dei problemi».

E i suoi genitori?

«Papà Nino è sempre stato un grande appassionato di Africa e di moto. Faceva la Parigi-Dakar. Io sono cresciuto con lui che partiva e stava via mesi. Mamma Loredana se n’è andata nel ’99. Tumore. Ero ancora uno studente e non mi ha visto nelle vesti di esploratore. Le avrei fatto venire un capello bianco, ci sono state situazioni da brividi».

Ci racconta la volta che ha avuto più paura?

«Nell’Atlantico, quando sono rimasto senza cibo cinque giorni. Nei primi sei mesi ero stato troppo lento rispetto alla tabella di marcia, avevo incontrato mare mosso, le onde, e durante uno dei capovolgimenti molto cibo venne a contatto con l’acqua salata e marcì. A 2.500 chilometri dalla destinazione finii le scorte. “E adesso cosa faccio?”. Trovai un arcipelago e quattro scienziati, allertati dal mio team, ad attendermi con un sacco di cibo».

 

https://www.youtube.com/watch?v=KofiOXx6XD0

 

E uno dei più belli?

«Il giorno prima di arrivare in Brasile dopo l’attraversata. Mi misi in piedi sulla barca con il cannocchiale. Di fronte a me avevo la terra. Ce l’avevo fatta».

E la solitudine, cos’è per lei?

«Un grande lusso. Sottovalutato, molto incompreso. È un amplificatore. Perché qualunque viaggio tu compia, la solitudine è quell’elemento che ti porta a viaggiare dentro di te, alla scoperta di chi sei, di cosa vuoi, di cosa ami. Un viaggio è l’esplorazione di te stesso grazie alla solitudine. Non è attraversare un oceano a remi o la vita su un iceberg, la sfida più grande è sopravvivere a se stessi».

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