Monumenti da conservare E se lasciassimo fare ai privati?
Abbiamo un patrimonio d’arte che da solo è più di quello di tutto il resto del mondo messo insieme. Magari bisognerebbe precisare che quello cui allude questa valutazione è il patrimonio d’arte precedente la seconda guerra mondiale, perché da allora in poi le cose sono cambiate. Non di molto, ma sono cambiate. Si pensi soltanto a quel che sta producendo l’America in questi anni, mentre noi restiamo al palo. Le percentuali si modificano, nel tempo.
Abbiamo - bisognerebbe anche dire - un patrimonio che è visibile solo in parte: le cantine del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, i depositi degli Uffizi di Firenze - sono i primi nomi che vengono alla mente - se indagati a dovere permetterebbero la formazione di un nugolo di musei e museini con relative dependances.
Ma, si dice, non ci sono i soldi per simili imprese. Abbiamo - e questo lo sanno tutti - un patrimonio che va in rovina giorno dopo giorno. Alla Colonna Traiana, a Roma, hanno fatto più male pochi anni di boom economico che il precedente millennio e mezzo. Gregory Peck e Audrey Hepburn in giro per Roma su una Vespa sono stati uno spot pubblicitario senza pari per la capitale. Ma i loro epigoni in scooter o in utilitaria hanno scaricato tanto di quel biossido di zolfo nell’aria che il marmo dell’imperatore si è preso il cancro. È chiamato proprio così: il cancro del marmo, il processo per cui il carbonato di calcio (il marmo) si trasforma in solfato di calcio, sostanza che smangia la pietra polverizzandola. E non sono soltanto gli edifici in marmo a sbriciolarsi. Quelli in mattoni, travertino o altro materiale nobile e meno nobile subiscono la stessa sorte. Dedicassimo la metà delle attenzioni riservate al Cenacolo vinciano ad altri cicli di affreschi disseminati per la penisola, la medesima risorgerebbe a colori. Ma non ci sono i soldi.
Che è una favola fatta e finita, questa dei soldi, perché da quando chi i soldi ce li ha e vorrebbe metterli a disposizione per ripulire, risanare, riportare ad pristinum splendorem ponti, fontane, giardini storici e anfiteatri del Bel Paese, invece di stendergli ai piedi un tappeto si fa di tutto per rendergli difficile l’esercizio della generosità. Si ha paura che un privato che intervenga nel mantenimento di un bene pubblico tenda, prima o poi, ad impossessarsene, o almeno a sfruttarlo a fini propri e commerciali. Della Valle vuole fare del Colosseo un monumento sicuro, percorribile e gattesente? Figuriamoci! Bulgari vuol prendersi cura di Trinità dei Monti? Per forza, c’ha er negozzio accanto. Fendi mostra interesse per Fontana di Trevi? Di sicuro vorrà recuperare le monetine dei turisti.E tutto perché, si dice, ci deve pensare lo Stato.
Ma lo Stato non ci ha mai pensato - mai - al patrimonio artistico. Solo le dittature si danno la pena di cantierare orripilanti architetture autocelebrative. In tempi normali l’arte è una questione privata, per citare del tutto a sproposito un titolo di Fenoglio. Privata magari del principe o del duca, ma privata. Ed è lo stato stesso a considerarla tale se - come ha fatto più volte notare Philippe Daverio - ha spesso costretto i possessori di palazzi d’epoca a lasciarli andare in rovina per poter pagare le tasse. Allo stato non interessano i beni: le tasse che ci si possono metter sopra, quelle gli interessano. E quindi, prima ancora di pensare ai restauri, che pensasse a lasciare in piedi quelli che ci stanno con le loro gambe, non tartassando i loro proprietari ma considerandoli patrioti per la dedizione con cui mantengono il loro - cioè nostro - patrimonio. Mantenere è meglio che rifare come prevenire è meglio che combattere.
Ma una volta che il guaio sia stato fatto, e che dunque bisogna ripararlo, pensi lo Stato a quel che si è detto sopra, ossia che non c’è opera d’arte al mondo che non sia nata da una iniziativa privata.
E dunque, per mantenerne in vita tante quante fortunatamente ne abbiamo, non c’è che una via privilegiata: favorire la crescita di ricchezza della popolazione detassando il più possibile.
Provi, il Ministro Franceschini, a fare un giretto a Barga, in provincia di Lucca. Ci andava sempre il Pascoli - dalla vicina Castelvecchio - quando voleva sbronzarsi un po’ da Caprez. Barga ha un centro con meravigliosi palazzi: tutti risalenti all’epoca in cui il Granducato di Toscana ne aveva fatto una piccola Montecarlo. Venuto lo Stato unitario con la sua maniacale imposizione fiscale tutto il fervore si è spento. Ma ce ne sono mille di Barga, in Italia.
E dunque forza, restituiamo il patrimonio alle sue origini, ossia alla sua fonte primaria: lo scialo per la bellezza, l’investimento in stupore. Lo Stato, che ne è il beneficiario oltre che il custode, ne promuova la conoscenza e lo renda fonte di ispirazione per una rinascita dello sviluppo artistico del nostro paese, come del resto è sempre avvenuto nei secoli. Ha solo da guadagnarci: a Recanati farebbero ancora la fame come ai tempi, se non ci fosse stato il conte Giacomo a render la vita allegra a negozi di souvenir, proprietari di bar, alberghi e pizzerie. Raffaello e i suoi andavano a ispirarsi nelle “grotte” che altro non erano che le case dei patrizi romani sepolte da secoli (e preservate da questo interramento più che da ogni altra iniziativa in proposito). Artisti di mezza (anzi intera) Europa - da Turner a Rodin, per non parlare degli altri - hanno considerato il viaggio in Italia una tappa doverosa della loro formazione. Facciamo che questa abitudine riprenda. I Duchi di Urbino, di Mantova e Firenze sono oggi i Signori del Quadrilatero (della moda, s’intende), della Rete e del commercio globale. Perseguitarli non servirebbe ad altro che a far dell’Italia nostra una diffusa Pompei. L’iniziativa della Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano, di avviare una sorta di “azionariato popolare” per veder rifiorire lo splendore delle guglie e delle volte potrebbe costituire un utile punto di riferimento per la normativa in proposito. E poi, chi ne ha di più, che ce lo metta.