Che cosa può insegnarci la paura
Crescendo ci insegnano che dobbiamo lasciarci la paura alle spalle, nascondendola dietro un sorriso o facendo finta di non averne, utilizzando frasi come «Tranquillo» o «Niente paura» come talismani di ottimismo. D’altro canto, studi dimostrano che molti imprenditori hanno in comune la paranoia produttiva, la voglia, cioè, di ascoltare le proprie paure per ricavare da esse delle nuove strategie d’azione. È proprio vero, allora, che dobbiamo smettere di avere paura?
Cosa ne pensa la Ferrante. Non secondo la scrittrice Elena Ferrante, che nel suo articolo The cat brought in a snake and left it under my bed. Screaming, I chased it out (Il gatto ha portato dentro un serpente e lo ha lasciato sotto il mio letto. Urlando, l’ho scacciato) racconta alcune delle sue paure: ragni, tarli, zanzare, mosche e serpenti. Scacciarle, cacciare via il serpente portato dal gatto dentro casa non è stato un gesto di coraggio. La Ferrante racconta di non averlo fatto superando la paura, ma cedendo a un timore più grande, ovvero quello di perdere rispetto per se stessa. «Abbiamo una così alta considerazione di noi stessi che, per non dover affrontare una nostra umiliazione, ci rendiamo capaci di tutto». Bisognerebbe, invece, accettare le nostre paure, continua la Ferrante, e con ironia, perché la cosa peggiore è la furia delle persone spaventate.
Un TED e una baleniera. La paura, dunque, potrebbe non essere qualcosa da vincere o da dimenticare. Al punto da poter diventare uno strumento importante per costruire la nostra storia. Questa l’opinione della scrittrice americana Karen Walker Thompson, che, per esporre la sua visione della paura, in un Ted Talk racconta la storia della baleniera Essex, colpita nel 1819 da un capidoglio e che affondò in una zona sperduta dell’Oceano Pacifico. I venti marinai presenti si strinsero in tre piccole navi cercando di capire cosa fare, avendo con sé solo poche scorte di cibo. Le possibilità di scelta erano ridotte. L’equipaggio sapeva che c’erano delle isole relativamente vicine, le Marchesi, ma attorno ad esse si sentivano raccontare storie di cannibalismo. Altra opzione era quella di raggiungere le Hawaii, ma con alte probabilità di essere colpiti da tempeste. L’ultima strada era quella di tentare il tutto per tutto provando a raggiungere le coste sudamericane, rischiando di morire di fame prima dell’approdo.
Le nostre paure parlano di noi, dandoci la possibilità di diventare dei lettori di noi stessi, dichiara la Thompson. Nel momento in cui ne prendiamo coscienza ci diamo anche la possibilità di leggerle a modo nostro, e di decidere che strada far prendere alla nostra storia. Ma per poter scegliere bisogna essere consapevoli, guardarle in faccia, imparare dalla paure. L’equipaggio della Essex alla fine scelse l’opzione più difficile, quella della lunga traversata verso sud. Metà dei marinai morì di stento, dando a Melville materiale per il suo Moby Dick, lasciandosi conquistare dalla paura del cannibalismo senza valutare un pericolo ancora più verosimile, ovvero la morte per fame.
Se tutti cercassimo, conclude la Thompson, di capire le nostre paure, ci faremmo influenzare meno da quelle più suggestive e comprenderemmo di più l’impatto di altre paure, ben più reali ma che si fanno notare meno. Il terrorismo contro il cambiamento del clima, insomma. La chiave, forse, potrebbe essere quella di smettere di chiamare le paure con questo nome e iniziare a parlare di loro come storie che raccontano di noi.