Le indagini

Inchiesta sul carcere di Bergamo Ovvero reati, mezzi reati e fango

Inchiesta sul carcere di Bergamo Ovvero reati, mezzi reati e fango
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Sono ventisette gli indagati nell’inchiesta sul carcere di Bergamo coordinata dai sostituti procuratori Maria Cristina Rota ed Emanuele Marchisio. Sei le persone sottoposte a misura cautelare su ordinanza del Gip Lucia Graziosi, per accuse che vanno dalla corruzione alla turbata libertà degli incanti, al peculato, al falso ideologico, alla tentata truffa ai danni dello Stato. Il nome più noto è quello di Antonino Porcino, direttore fino a pochi giorni fa del penitenziario di via Gleno, ora in carcere a Parma. Gli altri, tutti agli arresti domiciliari, sono il direttore sanitario Franco Bertè, il capo della polizia penitenziaria Antonio Ricciardelli, il commissario capo Daniele Alborghetti e gli imprenditori di Urgnano Mario Metalli e la figlia Veronica. Per tutti loro, scrive il Gip, l’indole è «spregiudicata sotto il profilo del mancato rispetto delle regole», e il fatto che siano incensurati non alleggerisce la «spiccata propensione alla ripetuta commissione dei reati». Solo per Porcino il giudice ha deciso il carcere, «nel contesto della particolare significatività della personalità del medesimo».

Il via all’inchiesta. L’inchiesta era partita nell’aprile 2017 da una segnalazione della Guardia di Finanza di Vibo Valentia, nelle indagini riguardanti l’autostrada Salerno-Reggio Calabria. L’imprenditore di Dalmine Gregorio Cavalleri, arrestato dalla direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, aveva evitato la detenzione in carcere a Bergamo ed era rimasto a lungo ricoverato all’ospedale Papa Giovanni grazie a una serie di certificati medici attestanti un grave shock emotivo. Che, però, non risultava nel corso degli interrogatori, in cui mostrava piena lucidità. I carabinieri del comando provinciale di Bergamo e di Clusone, insospettiti, hanno messo sotto controllo il suo cellulare. E hanno scoperto un accordo con il comandante della polizia penitenziaria. Ma non solo, perché attraverso le intercettazioni sono emersi una serie di altri illeciti, con coinvolti altri soggetti. Uno su tutti, il direttore del carcere, Antonino Porcino.

 

 

ARRESTATI

Antonino Porcino. Due settimane fa era stato salutato anche dalla stampa cittadina con tutti gli onori, dopo trentatré anni di servizio come direttore del carcere di via Gleno. Lunedì è finito dietro le sbarre accompagnato da imputazioni pesanti e da considerazioni anche peggiori, come quella di essere una personalità a «elevato spessore delinquenziale». 65 anni, laurea in Giurisprudenza, i pm ipotizzano a suo carico i reati di falso, corruzione, peculato, turbata liceità degli incanti, tentata truffa. È difeso dagli avvocati Marco e Riccardo Tropea. A Porcino viene contestato in particolare:

    • Di essersi fatto corrompere, con l’appoggio del commissario di polizia penitenziaria Alborghetti, da una società di Urgnano, gestita da Mario Metalli e dalla figlia Veronica, che installa distributori automatici di alimenti, bevande e tabacchi, per l’interno della casa circondariale di Monza, dove Alborghetti operava.
    • Di avere collezionato nel suo ultimo anno di lavoro circa duecento giorni di malattia per presunto stress e sindrome ansioso-depressiva. Un’assenza resa possibile dai certificati compilati dal direttore sanitario del carcere Bertè. L’intento di Porcino era quello di non fruire delle ferie che ancora aveva, in modo da farsele pagare, per una somma totale di circa diecimila euro. In una intercettazione, Porcino stesso, parlando della malattia, dice a un’interlocutrice: «È funzionale perché mi volevano obbligare ad andare in ferie, perché mi hanno fatto girare i c...».
    • Di avere sottratto materiale di vario genere in disponibilità alla casa circondariale. Come due water per il suo appartamento di Lallio in fase di ristrutturazione. O alcune risme di carta. Il tutto trasportato a casa da guardie del carcere, negli orari di lavoro e con auto di servizio.

 

 

Franco Bertè. Direttore sanitario del carcere di via Gleno. Agli arresti domiciliari nella sua casa di Ponteranica. Accusato di falso per la presunta finta malattia certificata al direttore (ha redatto una relazione medica attestante che Porcino era affetto da sindrome ansioso-depressiva), rimasto assente da gennaio a maggio, fino a poco prima della pensione. Bertè è difeso dall’avvocato Rocco Lombardo: «Nega ogni addebito così come descritto nell’ordinanza».

Antonio Ricciarelli. Capo della polizia penitenziaria di via Gleno. 57 anni. A lui e a tre agenti della penitenziaria (Giuseppe Randazzo, Giuseppe Graffeo e Michele Frasca), è contestato il falso ideologico per avere attestato sul registro dei colloqui che l’incontro fra il detenuto Gianmarco Buonanno e il padre Tommaso era durato un’ora invece di un’ora e trenta minuti. In un’altra occasione, Ricciarelli ha chiesto l’intervento di due agenti, durante il loro orario di servizio, per aiutarlo a estrarre da un fosso la sua vettura rimasta impantanata nei pressi dell’ospedale Papa Giovanni. Gli agenti sono intervenuti usando un’auto della polizia penitenziaria, con relativo consumo di benzina. Infine, Ricciarelli ha chiesto a Bertè il favore di assumere a tempo determinato un’infermiera al carcere, in assenza di alcuna idonea valutazione, ricevendo assicurazioni dal direttore sanitario.

Per avere avallato la decisione di Bertè, è indagato anche Claudio Arici, direttore...»

 

Per leggere l’articolo completo rimandiamo a pagina 7 di Bergamopost cartaceo, in edicola fino a giovedì 21 giugno. In versione digitale, qui.

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