Bonfanti: una casa senza quadri è una casa senza nessuna anima
«Fino a una quarantina di anni fa, i Paesi più importanti della nostra provincia mantenevano il “loro” pittore. Penso a Clusone, a Martinengo, Treviglio, Lovere... E se pensiamo a Bergamo, fino agli Anni Settanta del Novecento c’erano almeno dieci, quindici pittori che vivevano del loro dipingere, che avevano una fama locale, provinciale o regionale al massimo. Oggi non c’è più nessuno». Maurizio Bonfanti è seduto sullo sgabello, nel suo studio di via Martinella, sul bordo dei binari. Nella penombra si distinguono grandi tele, figure, macchie di colore. Tavole accatastate. È la sua vecchia casa di famiglia. Una casetta, a un solo piano. Un pezzetto di giardino e, oltre, la vecchia ferrovia che oggi è la tranvia della Val Seriana. Bonfanti, 66 anni, è uno dei pittori più significativi della nostra città, della nostra terra.
Quindi la crisi della pittura, dell’arte, è un fatto reale.
«Sì, è reale, molto visibile. È indice di un profondo cambiamento di costume. Ce ne siamo accorti in maniera evidente con la crisi del 2008. A un certo punto, abbiamo visto diminuire in maniera netta i committenti, i collezionisti. Anche le pubbliche istituzioni sono scomparse».
In che senso?
«Che un tempo erano fra i migliori committenti. Prenda la Chiesa. Ma anche le banche, gli uffici pubblici. Pensi a quanti edifici pubblici fino agli anni Sessanta o Settanta venivano ancora decorati con espressioni artistiche, con il lavoro di pittori e scultori. Pensi a Palazzo Frizzoni, a palazzo uffici del Comune, ma anche alla Borsa Merci o a certe industrie o sedi di banche... Oggi è tutto ridotto al lumicino. C’è ancora qualcuno che ha passione, interesse, ci mancherebbe, basti pensare all’impegno del Creberg per l’arte... ma ormai è un’eccezione».
Anche i privati cittadini sembrano più lontani dal mondo della pittura e della scultura.
«Una volta la classe media, i professionisti, erano inclini all’arte; a un certo punto anche operai e impiegati magari investivano i piccoli risparmi per comprare un quadro perché piaceva... e non solo, ma anche per un senso di decoro, di importanza. Anche per lasciare qualcosa di concreto ai figli. C’era un gran rispetto del lavoro del pittore o dello scultore, si riteneva che il bel quadro nobilitasse la casa».
Poi che cosa è successo?
«È una trasformazione che penso sia iniziata negli Anni Ottanta. È arrivato questo gusto minimale, la casa vista come luogo di sosta più che come vera dimora, centro di ogni cosa riguardi la vita, centro della famiglia. Oggi è difficile individuare il centro di tutto questo, anche perché la disgregazione della famiglia e delle relazioni si fa sentire, pesa».
Siamo nell’era del gusto Ikea.
«Sì. Ma in realtà io penso che un bel quadro non sia dissonante rispetto a una casa arredata in stile minimale. Anzi. Ma la maggior parte delle persone non la pensa così, non ce la vede una natura morta, un paesaggio in una casa di librerie Billy o di divani Kivirk. Piuttosto si pensa a un poster con la foto del ponte di Brooklyn. Certo, è anche una questione di soldi».
La gente oggi, piuttosto che spendere duemila euro per un quadro, preferisce scegliere un viaggio.
«Credo anch’io che sia così. C’è un cambiamento culturale, di gusti, di modi di intendere la vita. I viaggi, la tecnologia. Oggi si spende nel televisore, nello smartphone, nel tablet...».
Eppure esiste un mondo dell’arte dove i dipinti, anche moderni e contemporanei, raggiungono prezzi altissimi.
«Esiste anche questo fenomeno, ma su scala planetaria, che riguarda soltanto una élite di persone. Allora lì direi che non c’è crisi: nella casa dei ricchissimi si trovano opere d’arte milionarie, ma questo non ha a che vedere con il discorso locale, provinciale, anche regionale; è un’altra dimensione. In questo mondo milionario e ristretto si trovano fenomeni a volte solo commerciali, pilotati da abili mercanti d’arte. Ci sono autori contemporanei entrati nella corrente giusta le cui opere sono valutate anche cinque milioni di euro. Ma è tutta un’altra faccenda. È una situazione frustrante, soprattutto per i giovani artisti. Vedono che il tizio che ha messo i chiodi nell’aspirapolvere, va alla Biennale di Venezia e viene acclamato. E si dicono: e io perché no? Io che ho messo il bucato sporco steso accanto alla lavatrice, segno profondo del fatto che le colpe restano, come i peccati della storia, ed è illusione il fatto di lavarli via... Ecco, perché io non vado alla Biennale?».
Lei che cosa pensa di quest’arte?
«A me non piace, sia chiaro. È molto raro che queste opere suscitino in me delle emozioni; spesso si può dire che queste opere significhino tutto e il contrario di tutto. Così come non amo la spettacolarizzazione dell’arte. Al Mudec ci sono queste proiezioni enormi di Modigliani, questi “excursus multisensoriali” e magari l’originale era un quadretto piccolo... e allora che senso ha? Allora è un falso, è tutto sballato...».
La quotazione di tanti quadri è scesa negli ultimi anni.
«Succede che i figli non sappiano che cosa farsene dei dipinti lasciati dai padri e dai nonni. Io ho trovato un bel quadro di un figlio di Cesare Tallone, che pure era stato tra gli espositori della Biennale di Venezia, uno davvero bravo. Era a un mercatino, lo vendevano per duecento euro. Una cosa indegna, un insulto. Un quadro è un lavoro, è l’espressione di una sensibilità, quanto impegno c’è in un dipinto! Ma sta scomparendo la sensibilità che ci rende in grado di percepire la bellezza di un quadro. Questo è davvero un problema. Però penso che ci siano anche degli aspetti nuovi, positivi».
Per esempio?
«Penso all’arte dei writers. Ecco, questa espressione pittorica manifesta comunque il bisogno di colori, di forme, e comunicare attraverso questa speciale capacità dell’essere umano. Alcuni graffiti sono davvero belli, trasmettono qualcosa, hanno una loro pregnanza. È un’arte interessante anche perché sta ai margini, lontana dalle élite dei mercanti. È un’arte che si può dire popolare. Sì, davvero un fenomeno interessante».