Si semplifica troppo

Le parole del nostro dialetto che stiamo via via dimenticando

Le parole del nostro dialetto che stiamo via via dimenticando

Sembra essere l’ultima moda, un segno inequivocabile di territorialità, come amano sottolineare quanti, in politica e non solo, vogliono evidenziare uno stretto rapporto con la realtà locale e più in generale con la gente. L’utilizzo del dialetto nella gergalità comune, anche e soprattutto dei giovani e degli adolescenti, è sempre più diffuso. Siamo però sicuri che venga parlato, e di conseguenza tramandato, in maniera corretta? Spesso e giustamente lo si utlizza per slogan legati al tifo sportivo («Mai molà!») ma anche per dare genuinità colloquiale a incitamenti («Adòss!») e dialoghi amicali. Come ogni lingua che si rispetti, la miglior scuola per apprendere è la pratica.

Ai nostri ragazzi garantiamo vacanze studio all’estero, tanto che in Inghilterra l’ospitalità in famiglia è florida attività imprenditoriale; forse dovremmo assicurare analoga full immersion anche per la lingua dei nostri nonni e delle nostre origini, favorendo serate e settimane in compagnia dei nonni stessi, week end con gli alpeggiatori in casèra, serate giocando a cotècc oppure l’ascolto di racconti e vicende locali dalla viva voce dei residenti protagonisti.

 

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Il rischio, sempre più forte e misurabile, è che si perda l’originalità della parlata, ricca di una semantica colorita e ineguagliabile. Un esempio? La classica cerniera centrale dei pantaloni fu definita dai suoi ideatori “chiusura lampo”. Una rivoluzione, una delle icone della modernità. Il mondo della moda e anche i nostri ragazzi oggi la definiscono semplicemente “zip”, dato che l’inglese è d’obbligo e fa molto glamour. Ma vogliamo mettere la colorità traduzione altobrembana di fülmen (fulmine, lampo) che ha portato a definire con questo termine proprio la patta (a volte malauguratamente aperta) dei pantaloni?

L’altro giorno un amico di comune origine brembana ma ora residente a Milano, lanciando un breve messaggio in un gruppo Whatsapp, ha scritto a un altro amico qualcosa tipo: «T’o edù visì a l’altalena ier sira…» (ti ho visto vicino all’altalena ieri sera), per confermare la presenza con prole in un parco giochi. Le nostre nonne sarebbero inorridite. Visì (vicino) è una tremebonda traduzione degli ultimi decenni, ma la forma corretta è apröf. Per non dire de l’altalena, un termine sbrigativo che richiama le incerte traduzioni di Totò e Peppino in piazza Duomo a Milano (…e citavano proprio la Val Brembana) che a una corretta terminologia dialettale. L’altalena infatti è assolutamente e tassativamente la spigolsa, anche se addirittura in altre zone (vedi Casnigo in Valle Seriana) essa diventa la caroscéra.

 

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Insomma, il rischio concreto è che con i benedetti (e maledetti smartphone) si scattino fotografie splendide, che però faticheranno ad essere someanse. Forse i nostri ragazzi arriveranno a definire büs l’apertura laterale nei vecchi portoni utile a far uscire i gatti, ma qualcuno dovrà pur ricordare che quella è (e resta) la bicola. Non è questione di fare gli integralisti e fare catenaccio come a livello calcistico (a proposito, scarnàs), ma di salvaguardare una ricchezza infinita, propria anche della lingua italiana. Oggi andiamo semplicemente a spanne, o meglio a a chili, dimenticando che non c’è semplicemente la balansa (la bilancia), ma ci sono tipi e vocaboli ben codificati: una stadera (bilancia manuale con piatto, catena e contrappesi) non è certo una basacüla (la ben più grande bascula). In autunno si fa presto a dire castagne: ci sono le ostanele (maturazione precoce addirittura ad agosto), i biunde e i pregiati barbanc, per non dire dei biligocc (che meritano un’enciclopedia a parte). Durante le gite in montagna mostrate ai figli zödegn (mirtilli) e grignapù (lamponi): il dialetto ha una dolcezza infinita.