Zico, il giramondo dal piede fatato
Il giorno del suo sessantesimo compleanno lo hanno portato davanti allo sede del Flamengo, gli dicevano di non guardare, chiudi gli occhi. Sopra a un piedistallo c'era un enorme telo, lucido e bianco, che poi hanno tirato giù e, sorpresa, sotto c'era Zico alto così, tutto di bronzo, che gridava la gioia. Il padre gli aveva insegnato ad amare il Flamengo quando era un bambino e lui, anche prima che diventasse un eroe, ha sempre detto che quella era stata come una seconda casa. Non era vero. Zico è un figlio del mondo che non ha mai avuto un solo posto dove andare, e questa è una delle ragioni del perché il mondo gli ha sempre voluto bene. Quando giocava, e anche adesso che allena una squadra in India. Ha viaggiato, conosciuto gente, capito le tradizioni. L'uomo che ha cambiato il linguaggio del talento è un vagabondo con la faccia stropicciata. Adesso porta i capelli corti e le rughe sciagurate non hanno risparmiato nemmeno la sua maschera di cera. Però il sorriso sì, quello sì. E anche la curiosità di imparare, e le idee, l'ironia, l'eleganza.
Quando Zico giocava a Udine, Casarsa, il massaggiatore, gli metteva una mano sulla spalla e gli insegnava a parlare il dialetto friulano. «Anin a bêvi un tajùt di vin!» se lo ricorda nonostante siano passati trent'anni, e si vede che di quel rosso ruvido ne aveva trangugiato abbastanza. In Italia lo avevano voluto quasi tutti. I friulani di sicuro, che infatti erano scesi in piazza coi cartelli quando la Figc minacciò di chiudere le frontiere agli stranieri: O Austria o Zico!, gridavano. E lo volle anche il Presidente della Repubblica, che era Sandro Pertini e una volta disse: «Lui e Cerezo? Sono bravi ragazzi». L'Udinese riuscì a concludere l'affare vendendo - diciamo così - i diritti d'immagine del giocatore, che nell' '83 era il più forte che si fosse mai visto. Più tardi, quando andò in Giappone a insegnare come si giocava a calcio, Zico mischiava il portoghese della sua terra all'inglese dell'universalità, più l'italiano e un po' di giapponese appreso per imitazione. I giocatori giapponesi arrivavano al campo con il quaderno e la penna, e si appuntavano tutte le cose che diceva Zico anche se non le capivano bene, e poi scendevano in campo e facevano proprio come aveva detto lui. Chissà come. In Giappone ce lo aveva portato un italiano, Giorgio Galeffi, che organizzava a Tokyo sfide Europa contro Sudamerica di calciatori già in pensione. Zico accettò nonostante avesse smesso da due anni (era l' '89) pensando di poter sfruttare ancora un po' il suo smisurato talento, e infatti gli hanno fatto una statua di bronzo anche lì. Quando ha smesso davvero, Zico ha voluto allargare ancora un po' i suoi orizzonti. Andando ad allenare: in Turchia (il Fenerbahce), in Uzbekistan (il Bunyodkor), il Cska di Mosca (Russia), l'Olympiakos (Grecia), la nazionale dell'Iraq e, da poche settimane, il Goa (India).
Zico è un vero viaggiatore della vita, non soltanto del calcio. Gli uomini troppo spesso arrivano sulla riva di una spiaggia, si siedono, fissano il mare. Dicono: «Non c'è più niente da vedere», e muoiono d'inedia. E' necessario andare dove non si è andati, vedere quello che non si è visto e, se l'abbiamo già visto, tanto meglio: scopriremo qualcosa di nuovo. Il viaggio non finisce mai, e quello di Zico torna nella nostra memoria portando alla luce nuovi, mirabili particolari. Nel '93 gioca nei Kashima Antlers. A un certo punto entra in area, ma il passaggio del compagno è troppo alto e troppo lento per essere anche illuminante. Zico è già avanti, ha preso lo slancio, non può fermarsi. Allora getta il corpo in avanti, la faccia sul prato, senza paura di scoprire cosa succederà, e poi colpisce la palla con il tacco. Quel gol è l'espressione di un linguaggio generato da molte cose. Dalla fantasia. Dal coraggio. Di chi ha sempre voluto vedere le cose dove non c'erano, o dove c'erano ma nessuno le vedeva. Dopo Galeano scriverà: «Raccontatemi questo gol, chiedevano i ciechi».