Shin Dong-hyuk, l'unico evaso dai lavori forzati in Corea del Nord
Shin Dong-hyuk è nordcoreano e ha 32 anni. È nato il 19 novembre 1982 nel Campo 14 di Kaechon e vi è rimasto fino a otto anni fa, quando è riuscito a scappare. È l’unico prigioniero di un campo nordcoreano di lavori forzati ad essere evaso, sopravvivendo alla sua fuga. Oggi è ambasciatore ONU per i diritti umani e in questi giorni è ospite di Torino Spiritualità, dove racconterà la sua storia. A breve, inoltre, uscirà un documentario di Marc Wiese, Campo 14, e un libro scritto dall’americano Blaine Harde, Fuga dal Campo 14. Shin vive in Sud Corea ed è stato adottato da una famiglia americana dell’Ohio. Dice di avere difficoltà a rapportarsi con gli altri e di sapere di non avere ancora sviluppato la propria umanità. Nel campo dove è nato, infatti, non ha imparato nient’altro se non a sopravvivere. La crescita emotiva e spirituale che a noi sembra essere scontata, per lui non ha potuto avere luogo: sarebbe costata la sua morte.
I suoi genitori si sono conosciuti nel campo e il regime permetteva loro di dormire insieme cinque volte all’anno. Era una ricompensa per la loro buona condotta, ma era anche un espediente per adempiere a esigenze di ripopolamento interno (il campo 14 conta 200 mila prigionieri, come Los Angeles). Quando è nato, Shin è stato dichiarato colpevole di crimini di stato, per essere stato concepito da genitori internati. Fin da bambino, ha appreso che poteva sopravvivere soltanto denunciando alle guardie le disattenzioni sul lavoro o le presunte insubordinazioni da parte degli altri detenuti. Così, a 12 anni, ha confidato al suo maestro i piani di fuga della madre e del fratello. La delazione è costata la vita ai suoi parenti, ma probabilmente ha evitato a Shin e a suo padre di essere giustiziati.
A 23 anni conosce un prigioniero politico di quarant’anni, di nome Park, che gli racconta com’è il mondo, fuori dal recinto elettrificato. Shin non aveva mai pensato che potesse esistere una realtà diversa da quella del campo e le storie del compagno fanno nascere in lui, per la prima volta, il desiderio di scappare. I due si mettono d’accordo e mentre sono di turno per la raccolta della legna attendono il momento del cambio della guardia. Si tratta di pochissimi minuti, devono essere molto svelti. Park cerca di scavalcare la recinzione, ma non ce la fa. Muore fulminato. Il ragazzo, più agile, usa il corpo del compagno per saltare e riesce a passare dall’altra parte, anche se si ustiona gli stinchi.
Incomincia così il lungo viaggio di Shin verso la Cina. Le sue condizioni fisiche sono molto precarie, perché oltre ad avere difficoltà a camminare, è indebolito dalle torture subite. Nonostante questo, Shin sopravvive. Tanto a lungo e tanto lontano da arrivare in America. Dal giorno della sua fuga, Shin dice di «non poter dire di avere vissuto momenti felici». A chi gli domanda cosa sia per lui la libertà, risponde che la libertà, per chi ha vissuto in un campo detentivo, consiste soprattutto nella «possibilità di mangiare». E nella possibilità di raccontare, oseremmo aggiungere.