Sì, Habilita è diventata grande E adesso crescerà ancora di più

«Io non mi sento un grande imprenditore, semplicemente penso di essere una persona che fa bene il suo lavoro, che fa i giusti passi, con molta attenzione. Di certo ho una fortissima motivazione». Roberto Rusconi è il più importante imprenditore bergamasco in campo sanitario: gestisce cliniche, case di cura, laboratori di analisi e ospedali. Il suo gruppo, Habilita, nel 2018 ha fatturato 85 milioni di euro, uno dei primi quindici operatori nazionali. Lui però è rimasto se stesso, una persona alla mano, con i piedi ben piantati per terra e l’agenda stracolma di appuntamenti: «Rientro da Torino alle tre e alle quattro devo partire per la Sardegna. Ho tre quarti d’ora, venga che parliamo».
Rusconi, cominciamo dall’inizio: Zingonia e le camere iperbariche, giusto?
«Sì, tutto è partito da Zingonia, dall’azienda di mio suocero che costruiva impianti subacquei per la ricerca del petrolio. Tra questi c’erano mini sommergibili, campane e camere iperbariche».
E cosa c’entrava lei che stava studiando farmacia?
«Avevo 22-23 anni e mi affascinava la ricerca su queste realtà, scoprire come gli uomini avrebbero potuto scendere nel mare fino a quattrocento metri di profondità. In azienda era installato il simulatore abissale più grande d’Europa, per collaudare gli strumenti e per far scuola ai sommozzatori».
E lei?
«Semplice: per raggiungere questi risultati bisognava studiare le miscele gassose adatte. Mi sono laureato con una tesi in Tossicologia sull’uso dell’ossigeno iperbarico come farmaco, e sui suoi effetti tossici e terapeutici».
Ora comincia a essere chiaro.
«Vedendo la mia passione, mio suocero ha detto: “Se vuoi seguire questa strada, ti do la possibilità di usare un paio di camere iperbariche per fare della terapia”. L’avventura è cominciata così».
In che modo?
«Dalle rianimazioni degli ospedali del Nord hanno cominciato a mandarmi i pazienti. Erano i primi tempi in cui si curavano le intossicazioni e le cancrene con l’ossigeno iperbarico. In officina arrivavano le ambulanze, scortate da una macchina dei carabinieri, e noi trattavamo i malati. Quelli degli Ospedali Riuniti erano spesso accompagnati dal dottor Torcello, subacqueo provetto. Vista l’efficacia, la cura si è diffusa, l’università ne ha fatto un indirizzo di studio e negli anni successivi ho fatto nascere altri centri a Bolzano, Brescia, Verona, Como, Fidenza».
Così è nata Habilita?
«No, allora si chiamava Centro di Medicina Iperbarica. In seguito, Antonino Ligresti volle installare tre camere iperbariche all’interno dell’Istituto Galeazzi di Milano e grazie a lui questa terapia ottenne la convenzione col Sistema Sanitario, e noi di conseguenza fummo accreditati».
Tutto questo fino al 31 ottobre 1997, quando al Galeazzi undici persone morirono in una delle camere...
«Quell’incidente mi ha cambiato la vita. Studiammo con il magistrato per tre giorni per capire le ragioni di quella tragedia. Le cause furono tante, tutte legate al mancato rispetto delle procedure. La tragedia colpì fortemente anche Antonino Ligresti che visse gli anni successivi come un calvario appesantito da un grande senso di colpa che lo portò a cedere la sua attività sanitaria».
E Habilita?
«Ero stato il primo a partire con questa terapia e sono stato il primo a rendermi conto che la medicina iperbarica fatta in poliambulatorio non era sufficiente: bisognava farla in una struttura più idonea, nacque quindi Habilita Casa di Cura, con settanta posti letto».
In quel periodo, siamo, nel 2000, lei in società con Eugenio Cividini aprì la clinica riabilitativa, che aveva già ipotizzato anni prima.
«Mi ero reso conto che nel futuro ci sarebbe stato un grande bisogno di riabilitazione, specialmente di tipo neurologico. In quell’epoca l’interesse del settore era attività cardiochirurgiche, io ero convinto che, con l’incremento delle aspettative di vita, le malattie neurologiche avrebbero avuto un ruolo predominante per il nostro welfare. Ed è avvenuto così».
Nello stesso tempo avete anche ampliato l’attività diagnostica.
«Io ho sempre fatto i passi uno dopo l’altro, come fanno i bergamaschi: avevamo appena cambiato il nome ed era nata Habilita quando, nel 2002, la Regione volle dismettere alcuni ospedali minori e alcuni darli in gestione a privati con gare d’appalto, come l’ospedale Faccanoni di Sarnico. All’inizio era gestito dalla Maugeri e noi ci preparammo per la gara successiva del 2008. Presentammo l’offerta migliore e così Sarnico, con soddisfazione degli abitanti della zona, divenne parte di Habilita, ampliando la componente robotica-riabilitativa. L’anno successivo, poi, abbiamo acquisito il più grosso laboratorio di analisi della provincia di Bergamo, a Bonate Sotto. Una scelta che ci ha consentito di razionalizzare le spese».
Non è finita: lei si è sviluppato anche in centro a Bergamo, accanto all’Hotel San Marco.
«Abbiamo rilevato l’iniziativa di un bravo radiologo. I conti però hanno cominciato a non tornargli e nel 2010 siamo subentrati noi. Per tre anni abbiamo fatto fatica, anche per alcune rigidità contrattuali, ma ora le cose stanno andando bene e abbiamo potuto fare degli investimenti come la nuova riabilitazione e la chirurgia refrattiva».
Qual è il problema più grande quando si ritira un’attività?
«Convincere i dipendenti a cambiare. Spostare una scrivania a volte è più difficile che spostare una montagna».
E l’aspetto fondamentale qual è?
«La motivazione. Quando in un’azienda arriva un nuovo imprenditore è difficile che venga accettato subito. La fiducia viene coinvolgendo i dipendenti, ma serve tempo».
Dal 2010 al 2016 siete cresciuti ancora.
«In questi anni si sono succedute diverse acquisizioni, poliambulatori e case di cura, “I Cedri” di Fara Novarese e Villa Igea ad Acqui Terme, inoltre siamo entrati nel mondo della medicina dello sport con una partecipazione nella società Athaena».
E il prossimo passo?
«Sarà in Sardegna. La più antica casa di cura di Sassari, nel centro storico, ha accumulato milioni di debiti. Abbiamo presentato un progetto di risanamento che dovrebbe salvarla dal fallimento. Se chiudesse sarebbe un vero disastro: sono 180 posti di lavoro che sostengono altrettante famiglie, più tutto l’indotto. Noi vogliamo provarci».
Da dove viene questa sua «fortissima motivazione»?
«Viene soprattutto dal rapporto con i miei figli. Mio figlio Andrea mi segue ed è ricco di competenze: ha studiato in Bocconi, poi è stato in Argentina e ha lavorato all’Humanitas a Rozzano. Di fatto io e lui siamo una persona sola con doppie competenze, ma lui ha i contatti con la sua generazione e questo è molto importante».
Il passaggio generazionale è garantito.
«Di questa sintonia ringrazio il Signore: la cosa più bella della mia vita è poter lavorare con mio figlio, e un po’ anche con mia figlia Chiara Paola, anche se la vedo meno perché lei si occupa di comunicazione e abbiamo impegni differenti».
Qual è il suo sogno?
«Riuscire a diventare grandi mantenendo la sensibilità di quando eravamo piccoli. Non perdere l’attenzione per i particolari, anche quelli che sembrano meno importanti. E soprattutto mantenere il contatto con le persone: oggi l’idea di avere mille dipendenti e di non conoscerli tutti è per me un disagio».