Il racconto

Bruchi e polenta insieme ai pigmei Simone di Osio Sopra in Centrafrica

Bruchi e polenta insieme ai pigmei Simone di Osio Sopra in Centrafrica
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Lo abbiamo incontrato l’8 gennaio a Osio Sopra, era tornato in Italia per alcuni giorni. Nelle sue parole il racconto di un’esperienza profonda. L’incontro con un mondo molto diverso dal nostro, lontano dalla tecnologia, dove povertà, malattie e morte si toccano purtroppo da vicino. Simone Parimbelli prosegue la sua esperienza di missionario laico comboniano nella Repubblica Centrafricana ormai da due anni, da quando era atterrato per la prima volta a Bangui il 17 febbraio del 2017.

 

 

Come è stato rientrare in Italia?

«Stare qui all’inizio è stato un po’ strano, sembra di stare in un altro mondo. Soprattutto come stile di vita. A Mongoumba abbiamo la corrente solo quattro giorni a settimana per due ore la sera. Per cucinare usiamo la legna. Oltre alle due macchine della missione non ce ne sono altre, quindi non c’è traffico, non c’è rumore. Si sente il calpestio dei propri passi quando si cammina sulla terra».

Quali attività svolgete come missionari?

«La mattina i bambini vanno a scuola. Nel pomeriggio facciamo delle attività con i bambini pigmei, sono circa quindici. Vivono in un accampamento “vicino”. Dopo aver dormito nelle capanne fanno tutti giorni quattro chilometri a piedi per venire a scuola, a volte con delle ciabattine, a volte scalzi. Quando arrivano alla missione c’è una stanza per loro, dove si cambiano, si lavano e indossano la divisa. La scuola che frequentano è parrocchiale, gestita dalla missione. C’è anche una scuola statale, ma non riesce ad accogliere tutti i bambini. Nella nostra scuola c’è un maestro ogni cinquanta bambini, in quella statale uno ogni cento. Le lezioni terminano alle 12.30, poi i pigmei si fermano a mangiare nella Casa della Carità. Al pomeriggio li riaccompagniamo all’accampamento e facciamo delle attività insieme a loro».

Che età hanno questi bambini?

«Dai sette ai dieci anni, ma spesso è difficile sapere l’età con precisione. Non sono registrati. Da un lato perché il certificato ha un costo è poi perché non lo ritengono necessario. Cerchiamo infatti di sensibilizzare le mamme affinché richiedano il certificato di nascita».

Come vivono i pigmei?

«Quelli fortunati hanno un campo dove coltivano qualcosa. I pigmei principalmente sono dediti alla pesca, alla caccia e alla raccolta della legna. L’accampamento è composto da piccole capanne, all’interno sono praticamente vuote, ci vanno solo a dormire. La Repubblica Centrafricana è un paese molto povero. Lo stipendio di un insegnante è di circa 30 mila franchi, circa 40 euro al mese. È un’economia di sussistenza. Al mercato per esempio si trovano gli ortaggi coltivati e il pescato. Nel periodo estivo il villaggio si svuota. Tutti vanno nella foresta alla ricerca di alcuni bruchi verdastri, che sono lunghi circa 5 cm e cadono dalle piante in quel periodo. Possono essere essiccati e si mangiano con la polenta di manioca. Li ho assaggiati e devo dire che sono buoni, sono croccanti. I pigmei vivono isolati, subiscono anche una sorta di schiavitù da parte di un’altra etnia, quella bantù».

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Come sono i ritmi di vita?

«I pigmei non hanno orologi e quindi per esempio non è possibile mettersi d’accordo per incontrarsi a un certo orario, non avrebbe senso. In parrocchia ci sono le campane che scandiscono il tempo. All’inizio abbiamo fatto fatica a trovare un modo per farli arrivare a scuola puntuali la mattina. Abbiamo incaricato una persona del villaggio di far suonare un vecchio cerchione di un’auto colpendolo con un pezzo di ferro. Quando sentono questo suono i bambini sanno che devono prepararsi per andare a scuola. Prima arrivavano anche con un’ora di ritardo. Non hanno corrente all’accampamento perciò non hanno le sveglie, nemmeno i televisori o i cellulari. In assenza della tecnologia bisogna essere creativi. Il nostro ritmo di vita è determinato dalla tecnologia, mentre in Centrafrica è ancora dato dai movimenti del sole, quando sorge, a mezzogiorno e quando tramonta. Tutto questo però facilita le relazioni, senza tecnologia si è obbligati a tessere rapporti».

In che lingua comunicate?

«Parlo con loro la lingua Sango, l’ho studiata per un mese e mezzo. È una lingua facile da parlare, ha solo il tempo presente. È una lingua molto concreta. Parliamo anche il francese, perché ci sembra utile stimolarli a parlare questa lingua che imparano a scuola».

C’è stata una parata, come mai?

«Il primo dicembre è la festa nazionale dell’indipendenza dalla Francia. Le scuole sono invitate alla parata. I bambini imparano a sfilare secondo un certo ordine. È un modo per ricordare la loro indipendenza. Io stesso ricordo che quando ero piccolo alla scuola elementare di Osio Sopra il IV Novembre sfilavamo per le vie con le bandiere italiane».

Quanti missionari siete?

«Vivo nella comunità internazionale con tre donne. Maria Augusta, portoghese, era una maestra, ora è in pensione. Conosce bene il francese e segue la pedagogia della scuola. Prima è stata nove anni in Mozambico. Poi c’è Anna che ha 33 anni ed è polacca. Infine c’è Cristina, che ha quasi cinquant’anni, è portoghese, infermiera, e si occupa dei progetti sanitari. Alcuni progetti cercano di combattere la malnutrizione. Accade che le donne restino incinte quando il figlio precedente è ancora in allattamento e purtroppo la produzione di latte nella madre si ferma. La diocesi fornisce un sacchetto che contiene una pasta molto nutriente. I bambini vengono misurati per controllare i progressi. L’esperienza della morte la si vede da vicino. Può capitare che alcuni bambini muoiano per la malnutrizione, la malaria o la gastroenterite. Malattie che potrebbero essere sconfitte avendo i farmaci e strutture sanitarie adeguate. Dall’altro lato continua a esserci la vita, con nuove nascite, nonostante le condizioni di vita».

 

 

Cosa ti ha lasciato questa esperienza, la consiglieresti?

«L’essere a contatto con l’umanità sofferente. In questi giorni che sono qui mi accorgo che le cose che ho visto, ho respirato, stanno influenzando il mio modo di vedere e di pensare. Più che del fare, è stata un’esperienza di fede. Lì si sta a contatto con Gesù. Se qualcuno mi chiedesse: dove sta Gesù? Gli risponderei: vieni in Centrafrica e lo troverai. È una nazione ricca di materie prime come coltan, diamanti, oro e petrolio. La condizione di povertà delle persone è dovuta a un sistema economico che li sfrutta. Per la nostra fede cristiana, Gesù è colui che ha sopportato la sofferenza e la passione. Allo stesso modo, il popolo pigmeo subisce le azioni ingiuste di altri uomini, loro sono Gesù oggi. È un’esperienza che consiglio perché penso che ciò che sto vivendo resterà dentro di me per tutta la vita».

Come si può dare una mano?

«I nostri progetti sono sostenuti dalla generosità della rete dei nostri conoscenti. È possibile sostenere questa missione contattando il gruppo laico di missionari comboniani a cui appartengo, per esempio attraverso il sito www.combinazione.it».

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