Manifestazioni filo curde contro il governo

Kobane resiste all'avanzata

Kobane resiste all'avanzata
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A Kobane si combatte e in Turchia si muore per dimostrare sostegno al popolo curdo. È salito, infatti, a 14 il numero delle persone uccise negli scontri tra manifestanti e polizia turca durante i cortei di solidarietà organizzati dai partiti filo curdi per denunciare l’immobilità del proprio Governo nei confronti della situazione in cui versa Kobane, l’enclave curda in Siria che sta cadendo nelle mani dell’Isis dopo tre settimane di assedio. Il bilancio più tragico è avvenuto a Diyarbakir, la maggiore città curda del sud della Turchia: 5 morti. In due province e 15 distretti epicentro degli scontri è in vigore il coprifuoco; non accadeva dal 1992, anno clou della ribellione curda del Pkk. La compagnia di bandiera Turkish Airlines ha annullato fino a nuovo ordine i voli su Diyarbakir e sulle altre città in cui vige il coprifuoco. Il ministro degli Interni, Efkan Ala, ha accusato i manifestanti di «aver tradito il loro paese» e minacciato conseguenze «imprevedibili» nel caso di ulteriori proteste.

Le manifestazioni a sostegno del popolo curdo si sono poi estese anche in molti paesi d’Europa. Una delegazione composta da una settantina di curdi ha fatto irruzione alla sede del Parlamento Europeo di Bruxelles al grido «Isis terroristi, turchi terroristi». Ci sono state mobilitazioni di protesta negli aeroporti europei di Londra, Colonia, e per le strade di Vienna e in alcune città svizzere. In Olanda una delegazione di curdi ha bussato al parlamento all’Aja, chiedendo all’Occidente di «fare di più» per fermare l’Isis.

La Turchia, da che parte sta. I raid della coalizione capeggiata dagli Stati Uniti, infatti, sembrano non bastare per fermare l’avanzata jihadista. Già ieri lo aveva detto il presidente turco Recep Tayyp Erdogan, invocando un’azione di terra in Siria e Iraq. Anche se quella di Ankara è da molti considerata una strategia per indebolire la resistenza curda e le sue istanze di indipendenza e autodeterminazione. Lasciando che i tank dell’esercito rimangano schierati immobili a pochi metri dal confine con la Siria, Ankara è accusata di aver scelto di aspettare la caduta di Kobane per costringere l’ala armata dell’Unione Democratica del Kurdistan a chiedere un aiuto militare turco.

La Turchia uscirebbe quindi doppiamente rafforzata: sarebbe la chiave per l’Occidente per fermare l’avanzata dell’Isis e indebolirebbe il potere negoziale dei curdi facendo pressioni affinché questi ultimi si oppongano al regime di Bashar al-Assad in Siria. Perché il fine principale di Ankara nell’appoggio alle forze di coalizione anti-Isis resta la cacciata del regime di Damasco, un obiettivo perseguito da diversi anni senza successo. Addirittura ci sono fonti curde, citate dall’account twitter @ItalianPolitics, che sostengono come ci sia un preciso piano di Ankara dietro alla caduta di Kobane, tanto che la Turchia sarebbe ora pronta a sostenere i curdi nella loro lotta contro il regime siriano.

I raid aerei della coalizione Usa non sono efficaci. Il CENTCOM, cioè il Comando Centrale della Difesa americana che gestisce i teatri di guerra ad est dell’Egitto e fino all’Afghanistan, ha diffuso una tabella che riporta un conteggio dettagliato degli attacchi compiuti finora su Iraq e Siria. Quel che balza all’occhio, osservando i dati del fronte siriano, è che ci sono due nomi, “Kobane” e “Ayn al-Arab”, che in realtà sono la stessa città, di poco più di 50 mila abitanti al confine turco-siriano. Kobane è il nome curdo, Ayn al-Arab è il nome arabo imposto da Assad. Dati aggiornati alla sera del 6 ottobre indicano che su 1768 uscite complessive, che comprendono anche le missioni di ricognizione, perlustrazione e rifornimento, la coalizione guidata dagli Stati Uniti ha compiuto 266 raid in Iraq e 95 in Siria.

Al di là dell’errore di localizzazione, definito su Twitter dal massimo esperto mondiale di Stato Islamico Charles Lister del Brookings Doha Center «Deeply concerning» (molto preoccupante), si nota come sommando tutti i raid compiuti su Kobane, Ayn al-Arab e Kobani Border Crossing, si arriva a 13 in totale. Kobane è sotto assedio dal 16 settembre: significa che la coalizione ha effettuato meno di un bombardamento al giorno per fermare l’avanzata dei miliziani del califfato in quello che è considerato il nodo strategico per in controllo di tutto il nord della Siria e canale diretto verso Raqqa, capitale siriana dello Stato Islamico. Negli ultimi due giorni, pare che i raid si stiano intensificando, e questo avrebbe portato i miliziani a indietreggiare da alcune posizioni già conquistate.

Una guerra casa per casa. Sta di fatto che Kobane rimane cinta da un assedio sui tre lati siriani mentre in centro città, dove sono rimasti 3 o 4 mila civili, arrivano le cannonate e si combatte casa per casa. Anche l’Onu è preoccupato per quanto sta accedendo e chiama all’azione. Lo fa tramite l’inviato in Siria Staffan De Mistura, che ha osservato come i pochi abitanti, tutti curdi, rimasti in città «si difendono con grande coraggio. Adesso però sono molto vicini a non farcela più. Combattono con armi normali mentre l'Isis ha carri armati e mortai. La comunità internazionale li deve difendere perché non può sostenere che un'altra città cada nelle mani dell'Isis. Ora serve un'azione concreta».

Anche il capo carismatico della resistenza curda, dalla sua cella in Turchia dove sta scontando l’ergastolo, ha già avvertito che la caduta di Kobane sancirebbe al fine del processo di pace avviato due anni fa tra turchi e curdi per porre fine a un conflitto che in 30 anni ha causato oltre 40.000 morti. In un messaggio diffuso ieri dal fratello, Ocalan concede tempo ad Ankara fino al 15 ottobre per rilanciare i colloqui.

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