L'Ex Ilva da bomba ambientale rischia di diventare bomba sociale

Il 4 novembre 2019 non potrà essere certo ricordato come il giorno della vittoria nel Sud Italia. Mentre Svimez, l’associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno rendeva noti i dati drammatici del suo Rapporto, la dirigenza della multinazionale franco-indiana Arcelor Mittal annunciava di volersi sfilare dall’acquisto dell’ex Ilva di Taranto, la più grande acciaieria d’Europa. Per stare ai numeri, il rapporto Svimez dice che dal 2000 a oggi 2 milioni di persone (Ilva la metà under 34) hanno lasciato le regioni meridionali, mentre l’eventuale chiusura del colosso industriale significano 8.200 persone senza lavoro più le oltre 3 mila dell’indotto. Insomma una nuova Caporetto per la parte più debole del Paese.
Naturalmente la prima pagina se la conquista il caso Ilva, anche per le ricadute politiche che è facile immaginare. I vertici di Arcelor Mittal si ritirano in quanto col Decreto crescita il precedente governo giallo-verde ha cancellato per la prima volta lo scudo che tutela i manager del gruppo dai reati penali legati al piano di risanamento ambientale. «Non è possibile esporre dipendenti e collaboratori a potenziali azioni penali», ha spiegato la nuova ad del gruppo Lucia Morselli. Con effetto dal 3 novembre 2019 precisa un comunicato di Arcelor «il Parlamento italiano ha eliminato la protezione legale necessaria alla Società per attuare il suo piano ambientale senza il rischio di responsabilità penale, giustificando così la comunicazione di recesso». Nel contratto sottoscritto infatti si prevedeva una clausola di recesso per «l’affittuario» degli stabilimenti (Arcelor per 18 mesi, a partire dal 1° novembre 2018, gestisce in affitto gli stabilimenti Ilva; al termine di questo periodo avrebbe provveduto all’acquisto delle acciaierie). Nel testo del contratto il diritto di recesso è assicurato nel caso in cui un provvedimento legislativo renda «impossibile l’esercizio dello stabilimento di Taranto» o «irrealizzabile» il piano industriale. L’abolizione dello scudo penale per gli acquirenti quindi cambia le carte in tavola. Il contratto allora venne sottoscritto dal ministro per lo Sviluppo economico del governo Gentiloni, Calenda, il quale comunque avverte che Arcelor Mittal prima di fare il passo indietro e quindi procedere alla progressiva chiusura degli stabilimenti deve aspettare il verdetto del Tribunale, che deve stabilire se l’abolizione dello scudo penale rientra davvero nullo il contratto sottoscritto.
Il risultato è quello fotografato con lucidità dal segretario nazionale della Fim Cisl, Marco Bentivogli: in questo modo non si è «disinnescata la bomba ambientale e in aggiunta si è innescata una bomba sociale». Francesca Re David, segretaria generale Fiom è ugualmente drastica: «La decisione di Arcelor Mittal prefigura una catastrofe industriale per il nostro Paese». Non esagerano i due sindacalisti: Ilva, la più grande acciaieria d’Europa, rappresenta circa l’1,4% del Pil nazionale. Una miscela destinata a diventare ancor più esplosiva per le richieste della magistratura (con l’obbligo per ArcelorMittal a completare interventi d’urgenza entro il 13 dicembre, pena lo spegnimento dell’altoforno numero 2) e il peggioramento della congiuntura internazionale con la cassa integrazione per 13 settimane per 1.276 lavoratori.