Cosa diceva Papa Giovanni della famiglia bergamasca

Nei giorni in cui il Sinodo discute della famiglia, riproponiamo ampi stralci della conferenza su “Papa Giovanni e la tradizione bergamasca” che il vescovo Roberto Amadei tenne al Centro Congressi il 12 marzo 2008. È una lezione di storia e di umanità. La pubblichiamo perché ci sembra significativamente consonante con quanto ricordato dal cardinal Péter Erdő all’inizio della sua seconda relazione (post disceptationem): «Grembo di gioie e di prove, di affetti profondi e di relazioni a volte ferite, la famiglia è veramente "scuola di umanità" ("Familia schola quaedam uberioris humanitatis est": … Gaudium et Spes, 52), di cui si avverte fortemente il bisogno». «Io ho dimenticato molto di ciò che ho letto sui libri, ma ricordo ancora benissimo tutto quello che ho appreso dai genitori e dai vecchi” scriveva ai suoi familiari il futuro papa nel 1932.
Molti anni prima aveva annotato: “il mondo è molto più cattivo ma anche molto più buono di quanto noi pensiamo, e il compito nostro sacerdotale più che di sciupare lunghe ore in continui piagnistei e recriminazioni che a nulla giovano, è di lavorare e di cogliere il bene dovunque si trovi ed alla luce incontaminata dei principi elevarlo e moltiplicarlo; io faccio la figura dell’ottimista impenitente. Eppure non so essere diversamente”. Sembra di sentire papa Francesco.
"Papa Giovanni e la tradizione bergamasca", di Roberto Amadei, vescovo
Angelo Giuseppe Roncalli fin dalla più tenera età aveva imparato, come ogni bambino bergamasco dell’epoca, a iniziare e chiudere le giornate nell’incontro con il Signore, introdotto dall’orazione: “Vi adoro, mio Dio, e vi ringrazio per avermi creato, redento, fatto cristiano…”, inoltrandosi nella vita aveva aggiunto il grazie “perché sacerdote e bergamasco”. Così aveva confidato all’amico mons. Adriano Bernareggi vescovo di Bergamo (1936-1953) che aveva resa pubblica tale confidenza nel saluto di apertura dei festeggiamenti in onore del neocardinale Roncalli (1952) per sottolineare l’amore e il legame profondo con la tradizione bergamasca. Venendo a contatto con altre tradizioni – così affermava Roncalli rispondendo al saluto del vescovo – aveva potuto constatare la ricchezza di fede operosa presente in quella della sua terra d’origine, e da lui respirata, conosciuta e assimilata in profondità nella famiglia, nella parrocchia di Sotto il Monte, nel seminario di Bergamo, visitando le realtà diocesane come segretario del Vescovo Giacomo Maria Radini Tedeschi (1905-1914) e nei molteplici impegni pastorali esplicati fino alla chiamata a Roma (1921).
Nella famiglia, numerosa e modesta per risorse economiche come tutte le famiglie contadine bergamasche dell’epoca, aveva imparato e spontaneamente interiorizzato le linee fondamentali del vivere evangelico: “Io ho dimenticato molto di ciò che ho letto sui libri, ma ricordo ancora benissimo tutto quello che ho appreso dai genitori e dai vecchi. Per questo non cesso di amare Sotto il Monte, e godo di tornarvi ogni anno. Ambiente semplice, ma pieno di buoni principii, di profondi ricordi, di insegnamenti preziosi”, così scriveva ai familiari il 20 dicembre 1932.
Aveva avuto la fortuna di crescere in un ambiente dalla fede profonda e solida, una fede che si esprimeva nel rivolgersi al Signore con spontaneità, fiducia, rispetto e obbedienza, perché fonte benevola dell’esistenza, fedele compagno di viaggio, Padre che sempre ci attende per l’abbraccio eterno. Alla sua parola e alle sue vie ci si può affidare con pace e intima gioia, perché apportatrici di salvezza anche quando sono molto diverse dalle nostre.
Parole e vie radicate nella mente e nel cuore dalla diuturna e costante catechesi parrocchiale, nutrite dalle frequenti celebrazioni sacramentali e dalle numerose e sostanziose devozioni. Una fede che con spontaneità diventava operosa sia nella vita personale che in quella sociale: “Diversamente da ciò che accade quasi in tutta l’Italia dove le organizzazioni economiche e sociali sono state e rimangono un mezzo per ricondurre a Cristo e alla Chiesa, attraverso conquiste di carattere materiale, le masse lavoratrici traviate, a Bergamo la vasta e potente organizzazione non fu e non è se non una emanazione spontanea del sentimento religioso della fede…” così si esprimeva nel discorso pronunciato al Congresso Eucaristico Nazionale svoltosi a Bergamo nel settembre del 1920. Un’operosità che si manifestava nell’esteso e fecondo associazionismo cattolico, dove si discuteva di salari, di organizzazione e si manifestava pubblicamente la fede, la devozione la papa e la volontà di creare una civiltà cristiana contro il liberalismo e il socialismo. Una fede che diventa pazienza nelle difficoltà, sobrietà nell’uso delle cose, costanza e fiducia nel camminare con la Chiesa.
Una fede che generava serena concordia nella numerosa patriarcale famiglia dei Roncalli, e la disponibilità a condividere con i più poveri quel poco che si aveva. In questo clima era facile per un ragazzo guardare la vita e il futuro con ottimismo e considerare le persone con stima e fiducia.
E per un ragazzo educato con cura nella fede sia della famiglia che del parroco, don Francesco Rebuzzini, “esemplare di umiltà, semplicità e rettitudine” e zelante nella cura pastorale della parrocchia, era quasi naturale pensarsi prete. Nel suo ingresso a Venezia così si presentava: “Da quando nacqui io non ho mai pensato che ad essere prete”.
Iniziava il seminario nel 1892 a 11 anni. Ciò che, quasi naturalmente, aveva appreso e interiorizzato nella famiglia e nella parrocchia aveva ora la possibilità di consolidarlo in consapevolezza e impegno quotidiano, soprattutto nel modo di considerare e vivere il ministero sacerdotale. Le caratteristiche principali del modello del prete, contemplato con ammirazione nel parroco e poi nella vita del seminario erano quelli presentati nella letteratura ascetica dell’800: senso altissimo della dignità del sacerdozio e delle sue gravi responsabilità, ricerca costante della volontà di Dio, zelo infaticabile per le necessità spirituali e materiali dei fedeli; zelo da esplicare soprattutto nei ‘luoghi’ che il prete doveva considerare come la sua ‘casa’: l’altare, il confessionale, il pulpito. Per realizzare questi ideali si doveva adottare uno stile di vita radicalmente diverso da quello dei laici, caratterizzato dalla solitudine, povertà, distacco dai parenti, rigorosa ascesi e totale disponibilità alle richieste della Chiesa e capacità di interpretare e condividere le problematiche del popolo. Stare tra la gente con lo stile del Signore per aiutare tutti a riconoscerlo nella sua bontà misericordiosa e accoglierlo nella propria esistenza.
Straordinario è stato l’impegno del seminarista Roncalli nell’assimilare sia a Bergamo (1892 – 1900) che nel Seminario Romano (1900 – 1904) la radice di questa tradizione: la relazione di fede, di amore e di obbedienza con Gesù Cristo Buon Pastore. Relazione iniziata con impegno negli anni di seminario e che si è accresciuta, dilatata e intensificata durante l’intera sua esistenza. Il Buon Pastore è stato il centro della sua vita e dei suoi interessi, la presenza luminosa sulla quale con tenacia ha costruito il suo vivere quotidiano, la persona che ha affascinato interamente il suo cuore e che gli ha permesso di vivere sempre nella pace profonda del servo fedele. Tra i molti testi possiamo ricordare quello da seminarista: “…e ti amerò, o mio Gesù, ti amerò dell’amore di Paolo, del tuo diletto Giovanni, di tutti i santi tuoi, dell’amore operoso, dell’amore che è forte fino alla morte” (1900); “O Signore, fa pure di me quello che vuoi…Tu sei il centro, la sintesi, il termine ultimo di tutti gli ideali miei” (1902); “Il buon gusto dell’amore di Dio, l’abbandono dolce e totale al suo beneplacito, devono in me assorbire tutto il resto” (1903).
E che queste confidenze affidate al diario spirituale non fossero superficiali sentimentalismi di un giovane seminarista lo dimostra il severo e quotidiano esame di coscienza per verificare la corrispondenza tra tali sentimenti e il suo modo di affrontare la vita di ogni giorno. Nel giorno della prima messa, proponendo “una dedizione totale dell’essere mio a servizio di Gesù e della Chiesa”, per dire il suo legame d’amore con Gesù ricorre al dialogo tra Cristo Risorto e Pietro: “Signore, tu conosci tutto, tu che sai che ti amo”. Il medesimo episodio evangelico ritornerà in una nota del 1961: “... A pensare bene a questo mistero di intimo amore fra Gesù e il suo vicario, quale amore e quale dolcezza per me, ma insieme quale motivo di confusione per la piccolezza, per il niente che io sono. La mia vita deve essere tutta da amare per Gesù, ed è insieme tutta una effusione di bontà e di sacrificio per le singole anime e per tutto il mondo”. Aveva già scoperto e seguito il filo conduttore della sua esistenza e per comprendere il suo modo di vivere il ministero nelle diverse responsabilità è necessario partire da questo rapporto. Molto presto ha iniziato a comprendere che per il cristiano, quindi anche per il prete, l’amore verso Gesù viene prima di tutto ed è il fondamento di ogni ministero. (…)
Durante la guerra, da cappellano militare, oltre all’appassionata e attenta opera a favore dei soldati ricoverati nei diversi ospedali della città, ha curato diverse iniziative per i soldati e per i sacerdoti sotto le armi. Chiamato (1918) a interessarsi della gioventù studentesca, ha fondato e diretto la Casa dello Studente in Città Alta e divenne promotore e segretario dell’Opera Sant’Alessandro per la pastorale dei giovani studenti; fondatore e primo assistente della gioventù femminile di Azione Cattolica a Bergamo, continuava pure la frequente predicazione di esercizi spirituali e di missioni popolari. (…)
Altro elemento che caratterizza la sua assimilazione personale della tradizione locale e che sempre più segnerà la sua persona e il suo modo di relazionarsi a persone e situazioni, è lo sguardo fiducioso, ottimista e pieno di speranza sulle persone e sulle vicende; fiducia fondata sulla Provvidenza e sulla bontà umana. Fiducia nel comportamento ricco di dolcezza e longanimità rifuggendo dal pessimismo. In piena guerra scriveva (11 febbraio 1918): “E’ una grande grazia il farmi comprendere che le anime dei figli del popolo sono buone assai […] ma ci vuole garbo, pazienza e umiltà […] Beati i miti, perché possederanno la terra; il mondo è molto più cattivo ma anche molto più buono di quanto noi pensiamo, e il compito nostro sacerdotale più che di sciupare lunghe ore in continui piagnistei e recriminazioni che a nulla giovano, è di lavorare e di cogliere il bene dovunque si trovi ed alla luce incontaminata dei principi elevarlo e moltiplicarlo; io faccio la figura dell’ottimista impenitente. Eppure non so essere diversamente. Non ho mai conosciuto un pessimista che abbia concluso qualche cosa di bene. E siccome noi siamo chiamati a fare il bene più che a distruggere il male, ad edificare più che a demolire, per questo parmi di trovarmi apposto e di dover proseguire per la mia via di ricerca perenne del bene, senza più curarmi dei modi diversi di concepire la via e di giudicarla”. E ancora (aprile 1918) “La guerra mi ha offerto l’occasione di avvicinare anime più assai che dapprima, e di studiare la via migliore per giungere ad esse. È dunque una esperienza che mi ha fatto e mi fa molto bene, mi rende più buono, più disposto a compatire i difetti altrui, a dimenticare me stesso, e tutto ciò che nel mondo potrebbe darmi nome e onori per non cercare che il trionfo del regno di Dio e della sua Chiesa, nella conversione e nella edificazione di coloro che sono di Dio ed alla Chiesa, di diritto o di fatto, appartengono”, “Altro che tuoni del cielo! Carità, carità e verità semplice, schietta, amorevole” (17 agosto 1918).
Questo “ottimismo”, lo studio della storia della Chiesa e l’esempio del vescovo Radini Tedeschi, gli permetteva di essere fedele e appassionato della tradizione viva della nostra Chiesa e, perciò, anche attento e disponibile nell’accogliere con equilibrio ciò che stava nascendo nell’Azione Cattolica con la partecipazione più diretta dei cattolici alla vita politica e alle vivaci e dibattute questioni sociali. Molti preti erano rimasti indifferenti e critici verso il Partito Popolare (18 gennaio 1919) per la sua aconfessionalità e per il suo programma politico-sociale. Egli invece applaude il successo del partito in bergamasca nelle elezioni del novembre 1919 e critica chi aveva creato confusione e disorientamento seminando diffidenza verso la nuova formazione politica: “… pone in guardia la buona gente dal nuovo partito, raccomanda per intanto di stare alla finestra e fa una critica sul programma pubblicato per tante cose che mancano o che non sono chiare abbastanza, quasi si trattasse delle costituzioni di un Concilio dove si esprimono delle verità dommatiche. Benedetta gente, che non sa che criticare e demolire, mettersi al di spora anche dei dirigenti, e intanto permettono ai nemici di ridere di noi e di lavorare a nostro danno” (22 febbraio 1919). (…) A metà del 1921 partiva per Roma “con Bergamo nel cuore”. (…)
Proprio per aver penetrato e assimilato profondamente la tradizione religiosa della nostra terra, più di ogni altro ha potuto apprezzarne la ricchezza. E più di ogni altro ha saputo coglierne e realizzarne l’apertura alle altre esperienze da lui accolte, studiate e amate con altrettanto affetto e stima. Ha compreso che soltanto in questo dialogo è possibile arricchire e maturare le componenti più significative della tradizione locale.
Dopo il 1921 i bergamaschi, eccetto poche eccezioni, l’hanno un po’ perso di vista perché impegnato in terre lontane e, per molti anni, in ministeri non particolarmente brillanti. Abbiamo incominciato a scoprire le “grandi cose” operate dal Signore in questo figlio della nostra terra, quando è stato chiamato alla Cattedra di Pietro, e poi in occasione della sua beatificazione. Forse, però, ci siamo limitati ad una conoscenza approssimativa e non molto profonda. È necessario conoscerlo per ringraziarlo per quanto ha dato alla Chiesa universale, all’umanità, per quanto ha donato al cammino della nostra Chiesa in affetto, in lavoro apostolico e in testimonianza. Conoscerlo per meglio capire le ricchezze seminate dallo Spirito Santo nella nostra tradizione, per apprezzare e vivere meglio la ricchezza che, anche per suo merito, è affidata a noi.