Vi spieghiamo che cos’è il Mes il fondo salva-Stati dell'Eurozona
Mes: è la sigla che ha innescato il nuovo violento scontro tra il premier Giuseppe Conte e l’ex alleato e ora leader dell’opposizione, Matteo Salvini. Mes, ovvero Meccanismo europeo di stabilità, il fondo incaricato di aiutare i Paesi in crisi che adottano l’euro. Il Mes è un’organizzazione intergovernativa dei Paesi che condividono l’euro come moneta: organismo tecnico più che politico. In sostanza è contenitore che raccoglie il denaro di tutti perché venga utilizzato nel caso in cui uno Stato membro si trovi in difficoltà.
Il motivo del contendere è la riforma delle regole del Mes di cui si sta discutendo e che devono andare in approvazione: Giuseppe Conte le sostiene, pur ammettendo la necessità di ritocchi. Matteo Salvini ritiene che siano un attacco alla sovranità del nostro Paese e i 5Stelle, pur stando al governo, si sono messi sulla scia del leader leghista. Con l’annunciata riforma il potere del Mes davanti a stati di crisi aumenterebbe a discapito dell’organo politico rappresentato dalla Commissione europea. Il Mes ha una dotazione di 80 miliardi di euro, pagati in maniera proporzionale all’importanza economica dei Paesi dell’Eurozona: con quasi il 27 per cento del capitale la Germania è il primo contributore, mentre l’Italia vi partecipa con 14 miliardi di euro. Spiegata in termini semplici il Mes insieme alla Bce rappresenta la cosa più vicina a un «prestatore di ultima istanza», cioè una istituzione che presta denaro a chi non riesce più a ricevere prestiti. È quindi un organismo di cui l’eurozona si è dotato per affrontare situazioni di crisi.
Questo fino ad ora. La riforma del Mes però porta a un irrigidimento delle regole che riguarda i Paesi che hanno un rapporto debito/Pil superiore al 60%: sono 10 Paesi dell’Eurozona su 19 e tra questi c’è naturalmente l’Italia. La questione chiave che rischia di trasformarsi in una pesante penalizzazione per l’Italia di chiama «ponderazione dei titoli di Stato», vale a dire la possibilità di introdurre una valutazione di rischio dei titoli di Stato. I titoli di Stato sono finora esenti da rischio e, dunque, per le banche che li detengono non comportano alcun assorbimento di capitale. Con la ponderazione gli stessi titoli si ritroverebbero etichettati con un livello di rischiosità, con gravi conseguenze per il mondo bancario.
È un punto che Antonio Patuelli, presidente dell’Associazione bancaria italiana, ha definito una sorta di «linea del Piave». Ne è ben consapevole Roberto Gualtieri, ministro dell’Economia, a cui Giuseppe Conte ha affidato il compito delicatissimo di una trattativa con Bruxelles. Lui stesso sa che la linea voluta dal ministro tedesco Olaf Scholz è inaccettabile per il nostro Paese. «Un punteggio negativo sulla presenza dei titoli di Stato in pancia alle nostre banche potrebbe farci male davvero», ha ammesso con i suoi collaboratori.
Di fatto la riforma cerca di rendere più facile «ristrutturare» il debito pubblico di un Paese che chiede aiuto al Mes. Questo significa che chi ha prestato soldi agli Stati in crisi dovrà perdere una parte del loro investimento nel momento in cui scatterà un pacchetto di aiuti. Un Paese in crisi può restituire meno del dovuto ai suoi creditori: ma un’ipotesi del genere tiene lontani i potenziali sottoscrittori di titoli pubblici e costringerebbe lo Stato stesso a elevare gli interessi per rendere più attrattivo i propri bond. Come ha scritto Mario Cannata sul sito liberal lavoce.info «la riforma produrrebbe un incremento del costo di finanziamento pubblico, in particolare per i Paesi più indebitati». Lo stesso Cannata ha evidenziato un altro rischio: «Nella stragrande maggioranza dei titoli europei il flottante è molto grande e distribuito tra una miriade di investitori, anche individuali, che rischierebbero di non aver voce in capitolo». Infatti la riforma del Mef riguarda proprio il meccanismo di voto dei creditori, che assegna grandi poteri a una singola categoria dei creditori stessi. «Quindi, senza alcun beneficio effettivo», spiega sempre Cannata, «si avrebbero tassi più elevati proprio per gli Stati che più necessitano di ridurre il costo del debito, conseguente loro maggiore fragilità, aumento della probabilità di incorrere in una crisi grave che spinga a ristrutturare. Insomma, un autentico circolo vizioso, destabilizzante per l’intero sistema».