Un commento che fa riflettere sulla gogna social e sul suicidio del vigile
Il direttore del noto portale, Luca Sofri, ha scritto un editoriale nel quale sottolinea come troppe volte, ormai, si scriva o si parli senza aver prima riflettuto

La tragica vicenda del suicidio di Gian Marco Lorito, il vigile 43enne che si è tolto la vita nella notte tra lunedì 3 e martedì 4 febbraio al municipio di Palazzolo sull'Oglio, ha fatto il giro d'Italia. L'uomo, infatti, stando anche a quanto raccontato dalla sua ex compagna al Corriere e da altri testimoni, non avrebbe retto ai pesanti insulti ricevuti sui social per un errore commesso pochi giorni prima: aveva parcheggiato la sua auto di servizio in un posto per disabili a Bergamo.
La gogna sociale era subito scattata dopo che l'Anmic aveva pubblicato la foto. E non erano bastate le sue scuse con tanto di "auto-multa" a interrompere lo tsunami. Sebbene il suo nome non fosse stato reso noto e sebbene l'associazione avesse sottolineato con parole positive il bel gesto dell'agente, i commenti erano continuati ad arrivare, molti decisamente poco carini, per usare un eufemismo. Una mazzata per Lorito, persona sensibile e fragile, particolarmente attento al "peso" della divisa che indossava. A quel peso, si era aggiunto anche quello di chi, sui social, invece che limitarsi a una faccina o a una lettura, preferisce infierire. Una pratica che, purtroppo, è andata avanti anche dopo la notizia della morte del 43enne, con chi ha pensato bene (e purtroppo sono tanti) di rimarcare il fatto che non potevano essere stati dei semplici commenti ad aver portato a un simile gesto. Che, semmai, erano i giornali e i media a doversi vergognare per aver diffuso la notizia «scaricando la colpa su persone che hanno solo espresso il loro parere, che non potevano immaginare».
Ecco, in tal senso abbiamo trovato particolarmente puntuale l'editoriale scritto il 5 febbraio da Luca Sofri, direttore de Il Post, su questa vicenda. E di cui vogliamo proporre alcuni passaggi nella speranza possa far riflettere un po' tutti, così come ha fatto riflettere noi.
«La storia del vigile che si è ucciso a Palazzolo sull’Oglio, in provincia di Brescia, è triste comunque: capire se lo abbia fatto in relazione alle conseguenze del suo essere stato aggredito online per un parcheggio disdicevole o no, non aggiunge comunque molto altro al repertorio già consolidato di “gogne online” che trasformano i colpevoli in vittime con punizioni pubbliche sproporzionate e persecutrici.
[...]
Bisognerebbe sempre essere consapevoli che non sappiamo niente: bisognerebbe essere capaci di ipotizzare che in quel momento lì, quello stronzo, quella stronza, abbia una persona che sta morendo, qualcuno che sta aiutando. “Pure lui avrà dei bambini che gli vogliono bene e che soffrono quando lo sentono insultato”, mi forzo a volte di pensare di certi quotidianamente disprezzabilissimi protagonisti pubblici delle cose italiane.
Il signore che ha accusato il vigile per il parcheggio e ha generato la sua persecuzione starà a sua volta soffrendo, in questo momento, e naturalmente non se lo merita. [...] La cosa che ha detto in un’intervista però è una lezione che almeno lui forse si ricorderà e che metto qui per noialtri in generale: "Se solo avessimo immaginato che questo agente aveva dei problemi, non avremmo scritto quel post. Mi dispiace ovviamente che questo, insieme ad altro, abbia innescato una reazione di questo agente che a quanto mi dicono, nessuno poteva immaginare".
È difficile prevedere, ma immaginare è facile. Soprattutto che le persone “abbiano dei problemi”: li abbiamo tutti. Non si può immaginare tutto, non si può immaginare quello: ma si può essere consapevoli che ci siano un tutto e un quello che ignoriamo, sempre, fuori dalla cornice: perché non sappiamo niente degli altri e delle loro vite e dei loro problemi (sappiamo in generale pochissimo di quello di cui parliamo). Esserne consapevoli non significa tacere e assolvere comportamenti sbagliati – ammesso che qualcosa non li assolvesse, spesso capita pure quello – ma pensarci sette volte di più, alle reazioni che abbiamo, ai giudizi che diamo. E poi eventualmente decidere di averle lo stesso, alcune di quelle reazioni – ponderando – ma prendendosi la responsabilità di avere almeno immaginato. [...] Essere responsabili, di quello che si fa, è questo. Pensare – immaginare – che possano esserci delle possibili conseguenze, anche se non le conosciamo».