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Benvenute Gioia e Cecilia, le gemelline speranza di Albino. Una luce nella notte

Roberto e Pasqualina Spampanato, genitori per la seconda e terza volta nei giorni dell’emergenza. «Clima surreale. L’identità è annientata da una mascherina». «La finestra dava sull'ingresso. Quante bare abbiamo visto passare...»

Benvenute Gioia e Cecilia, le gemelline speranza di Albino. Una luce nella notte
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di Fabio Gualandris

Una luce nella notte, un grande segno di speranza, un desiderio di futuro materializzato dalla famiglia Spampanato: Roberto e Pasqualina diventano genitori per la seconda e terza volta nei giorni dell’emergenza Coronavirus. Raccogliamo la testimonianza di Roberto al rientro a casa dall’ospedale Papa Giovanni XXIII dove sabato 14 marzo sua moglie ha dato alla luce due splendide gemelline. Per loro è tempo di gioia ma anche di nuovi impegni, non si tratterà solo di ricostruire nuovi equilibri ma di vincere le sfide di un tempo impegnativo.

Ci presenti la sua famiglia.
«Sono Roberto, ho 38 anni, mia moglie Pasqualina di anni ne ha 37. Poi c’è Rebecca 6 anni, Gioia e Cecilia nate nel pomeriggio di sabato 14 marzo alle 16».

Dove abitate?
«Abitiamo ad Albino da quasi due anni. Prima eravamo in Val Brembana, a Zogno; abbiamo vissuto lì per una decina di anni. Siamo originari della Campania, il che ha complicato un po’ le cose non avendo qui una rete familiare adeguata ad aiutarci in una situazione così critica».

Ci racconti delle nuove arrivate.
«Sabato siamo andati in ospedale. Quel tratto che solitamente faccio in 40 minuti (se tutto va bene) l’ho percorso in 20, non c’era nessuno durante il tragitto. Qualche giorno prima avevamo consultato più volte la pagina Facebook dell’ospedale, visti tutti i decessi e le notizie poco rassicuranti sul sistema sanitario ormai al collasso. L’azienda ospedaliera, probabilmente tempestata di telefonate, aveva pubblicato un annuncio nel quale si rassicurava che le neo mamme avrebbero ricevuto comunque tutti i servizi e che l’ospedale era pronto ad accoglierle. Una volta arrivati sono sceso io, mia moglie era in auto. Le barriere si sono alzate ma nessuno ci ha accolto. Fuori una tenda militare per il triage, ma tutto deserto. Mia moglie aveva le contrazioni, pronto soccorso vuoto (mai vista quella sala così vuota), tutto spento. La mia attenzione è stata richiamata dalle luci del bancomat e del distributore che in un contesto così surreale dominavano la scena: addirittura riuscivo a udire il ronzio della macchinetta del caffè. Allo sportello, misurata la febbre, mi hanno detto che dovevamo andare direttamente al pronto soccorso ginecologico saltando la procedura del triage: “Segua le frecce arancioni” mi dissero. In ospedale non entri senza mascherina, tutti l’avevamo tranne mia moglie che doveva partorire. Nessuno nomina mai il virus, dicono sempre “visto il periodo” per giustificare tutte le forme organizzative messe in atto per evitare assembramenti. In camera non entra nessuno a eccezione del marito. Non ti puoi sedere ai divanetti per sostare, guai se ti vedono con un bambino. Mia figlia non è potuta venire in ospedale e per tre giorni l’abbiamo lasciata a casa di amici (non avendo parenti), non ha visto le sorelline, non ha visto la mamma. In camera e tra il corridoio ci guardiamo tutti negli occhi nella speranza di poter riconoscere qualcuno. Era presente una mia collega che ho riconosciuto solo in un secondo momento».

Qual è il clima al Papa Giovanni?
«È surreale. In una situazione così lieta, quando tutti si dovrebbero abbracciare, la distanza interpersonale è sempre più elevata (ci mancherebbe) e l’identità sociale è annientata da una mascherina che quando provi a toglierla per palesarti a qualcuno (anche se distante), oppure ti tocchi perché dopo 12 ore ti inizia a dare fastidio, senti l’operatore che richiama un papà dicendogli: “Non si tocchi”. Ho ascoltato le infermiere lamentarsi perché poche ore dopo l’apertura di una confezione di mascherine, queste erano già esaurite. La camera di mia moglie dava sulla sala mortuaria e l’ingresso. Da lì si vedevano le bare che venivano caricate sui furgoni: quante ne abbiamo viste. Abbiamo dovuto chiudere perché non riuscivamo a comprendere la situazione: c’è chi nasce e chi muore in un intreccio di gioia e dolore. Poi abbiamo visto l’esercito, ci siamo impauriti e rattristati...

L’articolo completo e altre notizie su Albino alle pagine 20 e 21 del numero di PrimaBergamo in edicola fino al 26 marzo, oppure sull'edizione digitale QUI.

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